Lavori di cera
L’artista classico non sedeva davanti a un cavalletto, non teneva in mano una tavolozza e non creava un’opera semplicemente trattando una superficie con un pennello. Per dipingere su tavole di legno, i pittori greci e romani usavano la tecnica dell’encausto a cera (in greco εγκαυστικóς, da "bruciare dentro"): si scaldava cera d’api sulla carbonella e la si amalgamava a pigmenti (e a volte a resine), e la miscela fusa veniva applicata alla superficie con una spatola prescaldata. Infine i colori venivano fatti penetrare nel legno con ferri arroventati, tenuti vicino alla superficie del dipinto.
Questo metodo dà risultati straordinariamente resistenti e in epoche successive sono stati fatti tentativi di resuscitarlo, in particolare dal tedesco J.H. Müntz nel XVIII secolo, attraverso il suo libro Encausto, ovvero il metodo di dipingere alla maniera degli antichi del conte Caylus (1760). L’accademico tedesco Max Doerner racconta che un tale Herr Fernbach pubblicizzò nel 1845 una ricetta elaborata della tecnica encaustica "pompeiana", che prevedeva «cera, essenza di trementina, trementina veneziana, vernice d’ambra e caucciù».
Nonostante questa ricetta fosse spuria, Doerner afferma che i dipinti a encausto possono essere «durevoli oltre ogni dubbio». La cera non scolorisce e crea una finitura compatta e dai colori forti, è abbastanza stabile in un clima mediterraneo caldo e asciutto, ma resiste meno bene all’umidità dell’Europa continentale. Si dice che Apelle avesse inventato una vernice protettiva scura che, secondo Plinio, ammorbidiva i toni dei suoi quadri e li rendeva ancora più naturalistici.
L’encausto a cera però non funziona bene sulle pareti – Plinio lo definisce «alieno a questa applicazione» – e, a Pompei, non si sono trovati esempi del suo uso su superfici interne o esterne. (Tuttavia si possono trovare colori a cera su opere in pietra, come la Colonna Traiana a Roma, e spesso si applicava uno strato di cera a scopo protettivo alle pareti dipinte.) I dipinti murali venivano generalmente realizzati stendendo a pennello il pigmento mescolato con un po’ d’acqua e colla sull’intonaco umido, "fresco", da cui appunto il nome italiano "a fresco" con cui questa tecnica è nota. L’intonaco per gli affreschi era in genere a base di sabbia e calce; quest’ultima asciugandosi lega i granelli di sabbia, ed esposta all’aria si trasforma lentamente in carbonato di calcio. Il dipinto viene eseguito sul penultimo strato d’intonaco, a cui se ne applica un altro sottile, l’ultimo ; il pigmento viene assorbito e fissato nell’intonaco man mano che questo si asciuga. Tale metodo tende a conferire ai colori un aspetto leggermente gessoso.
La tecnica a fresco usata a Pompei, descritta da Vitruvio, è molto elaborata. Si applicavano ben sei strati d’intonaco: i primi tre con sabbia man mano più sottile, gli ultimi invece con marmo polverizzato per ottenere una finitura dura e lucente; la parete asciutta veniva poi levigata e lucidata. Questo procedimento laborioso dava i suoi frutti: molte delle pitture parietali pompeiane hanno resistito eccezionalmente bene (tav. 3.5). Altre invece furono eseguite più in fretta e al risparmio, usando pigmenti mescolati a colla (a tempera), e applicati all’intonaco asciutto, a secco; i colori applicati in questo modo si possono strofinare via semplicemente con un dito inumidito, e non durano a lungo se esposti al sole e all’aria. L’artista svizzero del XX secolo Arnold Böcklin assistette una volta al recupero di alcuni affreschi nel Foro romano: i colori, freschi come appena dipinti, sbiadivano rapidamente non appena i frammenti venivano esposti all’aria. A volte il passato è troppo fragile per sopportare il nostro sguardo.