Sotto la pelle
Le vernici sporche e le crepe sono ostacoli fisici per l’apprezzamento di un dipinto e per questo i loro effetti si possono in genere eliminare, in maggiore o minor misura. Ma la chimica è meno accomodante: proprio come il ferro arrugginisce, il rame si corrode e l’argento si annerisce, così i composti chimici che conferiscono colore alle vernici sono soggetti a reagire con sostanze presenti nell’aria o con la luce. Queste reazioni chimiche possono alterarne l’aspetto, a volte in modo drastico, ma mentre una ringhiera di ferro o un tetto di rame possono venire scrostati, rimuovendo la pellicola superficiale ossidata, un sottile strato di pigmento su legno o tela può essere totalmente trasformato da queste reazioni e in genere non vi è modo di riportarlo allo stato originario. Per il pittore che desidera creare un’opera che parli per secoli, lo scoloramento dei pigmenti rappresenta forse il pericolo più preoccupante.
È sempre stato così. Il progredire della chimica ha permesso di comprendere meglio i processi che possono alterare un colore, ma non ha sempre fornito mezzi migliori per prevenirli. E dato che la chimica ha messo a disposizione ancora più colori, ha anche creato ulteriori possibilità che questi si deteriorino. Inoltre, gli artisti sono portati a sperimentare con i loro materiali, ma non hanno più conoscenze chimiche, e raramente possono prevedere le conseguenze della loro ricerca. I fabbricanti di colori ora eseguono verifiche di routine sui loro prodotti (cosa che fino al XX secolo non si può affermare per certo), ma non sempre possono prevedere i modi in cui gli artisti li useranno.
Quindi in tutte le epoche ci sono state lamentele sull’inaffdabilità dei materiali per Belle Arti, e ne sono stati riportati alcuni esempi nei capitoli precedenti. Si è detto a proposito dei quadri di Joshua Reynolds, incline a condurre esperimenti senza le informazioni necessarie, che molti erano «rovinati quasi subito dopo aver lasciato l’atelier». Il pittore americano Augustus Wall Callcott riportò nel 1805 come l’artista britannico John Opie osservasse «che i pittori erano guidati dai propri arnesi quanto questi lo erano da loro, convinti a quanto pare che l’arte dipendesse in grandissima parte dai materiali». È molto probabile che Opie avesse in mente soprattutto Reynolds.
Ma come si può sapere se ciò che ora assomiglia a un giallo ocra non fosse un tempo il brillante e seducente giallo limone? Che una chiazza rosa pallido lasciò in realtà il pennello del pittore come lacca carminio rosata? Comprendere come è invecchiato un dipinto presuppone la capacità di identificare i pigmenti utilizzati. Come si fa?
Questa domanda abbraccia non soltanto il degrado dei quadri ma l’intero argomento di questo libro: sarebbe ragionevole chiedersi in base a quale autorità affermo che Dürer usò l’azzurrite mentre Tiziano avrebbe adoperato l’oltremare. Un esperto dall’occhio allenato può riuscire a distinguere con una certa sicurezza le differenze di tonalità tra l’azzurrite verdastra e il purpureo oltremare, ma nessuno storico o restauratore emetterà un giudizio definitivo senza ricorrere a un’analisi scientifica che stabilisca l’identità dei pigmenti.
I chimici hanno a disposizione una formidabile varietà di metodi per svelare la presenza di questo o quell’elemento o ione. I composti del piombo disciolti in acqua rilasciano uno spesso deposito nero di solfuro di piombo, se trattati con solfuro di idrogeno; i solfati solubili precipitano come solfato di bario bianco, se mescolati con cloruro di bario. I test basati su questi fenomeni vanno benissimo se si deve analizzare un mucchietto di polvere, ma nessuno permetterà di scrostare via tutto il giallo da un Monet perché gli si possa dire di che cosa è composto. L’analisi dei pigmenti deve in genere accontentarsi di frammenti infinitesimali di materiale, prelevati per esempio con la punta di un ago ipodermico segato. A volte, anche in questa scala, si possono praticare test "a umido", eseguiti talora con l’ausilio di un microscopio, ma in genere per l’identificazione definitiva di un pigmento sono necessari metodi più sofisticati.
Tra i molti ora disponibili, è possibile operare alcune generalizzazioni. Nelle tecniche spettroscopiche i componenti chimici del campione assorbono radiazioni di una lunghezza d’onda caratteristica. In parole povere, si misura il "colore" del pigmento, con una valutazione di gran lunga più precisa, e quantitativa, rispetto a una semplice descrizione come "arancio rossiccio", "verde brillante" o altro: si determina quanta luce viene assorbita a ogni lunghezza d’onda. E il "colore" in questione può collocarsi fuori della gamma visibile: la radiazione assorbita può per esempio consistere di raggi X o infrarossi.
L’assorbimento di radiazioni è alla base della spettroscopia infrarossa in trasformata di Fourier (FTIR), che comporta essenzialmente l’esame del campione a lunghezze d’onda maggiori di quella della luce visibile (infrarosso). I composti assorbono la radiazione infrarossa quando i legami tra gli atomi sono eccitati in vibrazioni di risonanza: i legami chimici presenti nel composto possiedono frequenze di risonanza caratteristiche.
Una delle tecniche spettroscopiche migliori per scoprire particolari elementi è chiamata analisi a raggi X in dispersione di energia (EDX), una tecnica che misura le radiazioni caratteristiche emesse, anziché assorbite, dal campione. Quando viene stimolato da un fascio di elettroni (come quello prodotto all’interno di un apparecchio televisivo), il campione emette raggi X di un determinato "colore" (cioè di determinata lunghezza d’onda) che vengono analizzati mediante un apposito spettrometro. Nella microspettroscopia ad arco con ablazione al laser, invece, si usa un impulso laser per vaporizzare rapidamente il campione: il vapore passa poi fra due elettrodi con un’emissione di radiazioni che possiede la caratteristica di essere situata nella gamma del visibile (le energie sono inferiori a quelle dell’EDX) ed è indicativa degli elementi presenti.
L’esame al microscopio di piccoli campioni può fornire informazioni che la spettroscopia non dà. Per esempio, come si può affermare che un campione di oltremare del XIX secolo è naturale oppure sintetico, dato che chimicamente sono più o meno simili? La forma delle microscopiche particelle di pigmento può rivelare molti dettagli su come il materiale era stato preparato: la macinazione del lapislazzuli produce particelle con una vasta gamma di dimensioni, mentre il pigmento artificiale tendenzialmente consiste di particelle più arrotondate, più regolari e più piccole. Il moderno vermiglione sintetico, preparato con il procedimento a secco e poi triturato, è formato da particelle con un’ampia varietà di dimensioni, mentre quelle del pigmento ottenuto col procedimento a umido, che viene fatto precipitare da una soluzione sotto forma di polvere fine, hanno dimensioni uniformi.
Alcuni pigmenti possono essere preparati in forme identiche per composizione chimica, ma leggermente diverse per la disposizione che gli atomi assumono nel cristallo. Il realgar – il solfuro di arsenico arancione – ne è un esempio: oltre alla normale forma cristallina, ne esiste una differente chiamata pararealgar, anch’essa arancione; per distinguerle bisogna conoscere la posizione degli atomi, che può essere dedotta dallo schema dei raggi X diffuso dalle particelle di pigmento. Gli ammassi regolari di atomi dei cristalli riflettono maggiormente i raggi X da alcuni angoli che non da altri, un fenomeno detto diffrazione. Una confusione di granelli diversamente orientati provoca una serie di cerchi concentrici di raggi X riflessi, che si possono fissare su pellicola fotografica; la loro posizione e brillantezza costituiscono la registrazione della posizione assunta dagli atomi nello spazio. In questo modo, è stato possibile dedurre che Paolo Veronese per le tonalità arancio delle sue Allegorie (1570 ca.) fece uso (di certo senza saperlo) sia di realgar normale sia di pararealgar.
I coloranti organici impiegati per colorare le lacche sono più difficili da identificare con esattezza. Non serve a nulla sapere che contengono carbonio, idrogeno e ossigeno, poiché questo vale per la maggior parte dei prodotti naturali e non sarà d’alcun aiuto nel distinguere la lacca di robbia (colorata da alizarina e porporina) dalla lacca carminio al chermes o da quella alla cocciniglia (colorate entrambe da acido carminico e chermesico). In questo caso, tuttavia, si possono utilizzare alcuni metodi chimici "a umido", in grado di differenziare perfino il carminio di chermes da quello di cocciniglia. Una spettroscopia a infrarossi rivela le vibrazioni tipiche delle varie molecole organiche, purché il campione sia abbastanza grande da offrire spettri misurabili.
La tecnica della cromatografia a strato sottile permette di separare le varie componenti molecolari di un colorante organico: con un solvente queste vengono fatte passare attraverso un sottile strato di una sostanza simile a un gel e viaggiano a velocità determinate dalle loro dimensioni e dalla loro struttura chimica. Così, gradualmente le diverse componenti si separano formando sul gel bande distinte: due coloranti che contengono le stesse componenti produrranno, in qualsiasi momento, bande corrispondenti negli stessi punti. Usando la cosiddetta cromatografia liquida ad alto rendimento, è perfino possibile distinguere tra lacche cocciniglia i cui coloranti provengono da fonti diverse: specie di insetti del Vecchio Mondo (Polonia) o del Nuovo Mondo, che producono proporzioni diverse di coloranti assai simili.
L’analisi della tecnica pittorica di un artista è in genere eseguita esaminando attentamente come è stato steso il pigmento sulla tela. A volte si può dedurre moltissimo solo fotografando il quadro sotto una luce viva, che colpisca la superficie con un’angolazione stretta: la cosiddetta luce radente. Come la luce solare che inonda i campi subito prima del tramonto, questa produce ombre esagerate, mettendo in evidenza il rilievo della superficie dipinta (fig. 11.2). Un quadro che illuminato normalmente appare come una pellicola liscia di vernice può allora divenire all’improvviso un terreno di valli e colline, che mostrano i punti in cui il pennello è stato maneggiato con gesti lunghi e ampi o con rapidi tocchi.
L’energia delle pennellate balza agli occhi, in modo quasi sconcertante, nelle selvagge vedute di Van Gogh. Si possono individuare le zone in cui i moderni pittori "Hard Edge" hanno usato il nastro adesivo come mascherina, dalle righe rilevate rimaste sulla pittura.
L’esame microscopico della superficie dipinta mostra dettagli rivelatori che l’occhio non riesce a notare facilmente: dove il colore è stato applicato bagnato sul bagnato, per esempio, o dove il fondo o linee disegnate o tracciate col regolo non sono stati completamente ricoperti; si resta incantati, per esempio, nello scorgere i granelli di sabbia rimasti attaccati alle marine di Monet. E ancora di più si può apprendere dalla sezione trasversale microscopica degli strati di pittura, che rivelano come gli antichi maestri costruissero le loro scene tramite meticolose applicazioni di numerosi strati di colore. In un dipinto di Gérard David del XV secolo, un drappeggio rosso porpora si dimostra un amalgama di azzurrite e lacca rossa su uno strato di fondo pure rosso, sotto il quale si trovano particelle nere di carbone di legna del disegno originale su fondo bianco (tav. 11.3). Un mantello rosso prugna del pittore fiammingo del XVI secolo Jan Gossaert appare costituito da lacca rossa su grigio scuro. Sempre con questo mezzo si è scoperto che Van Dyck nel XVII secolo a volte applicava due mani di fondo: una arancio brunastro e una grigia; sopra stendeva molto metodicamente varie miscele: un cielo di oltremare e smaltino su uno strato di solo smaltino, oppure stesure multiple di pigmenti rossi misti. È da questi strati nascosti che si disvela tutta la complessità del lavoro creativo dell’artista.