Azzurri sbiaditi
Ma c’era ancora un ostacolo da affrontare prima che calasse la notte sul XIX secolo, e la modernità arrivasse con tutto il suo fascino e i suoi orrori. Nel periodo 1880-90, una delle tinture più importanti era ancora un estratto naturale. Proveniva dall’India, sotto gli auspici coloniali della Gran Bretagna, per cui l’industria dell’indaco era l’attività più remunerativa dell’Impero in Asia. Nel 1870 in India esistevano 2.800 fabbriche di indaco. Usato in grandi quantità per articoli prodotti in massa come le uniformi militari, oltre a essere il colorante tessile più usato in Cina, la tintura blu era un affare di portata mondiale, e il Regno Unito ne dominava il mercato, con gran dispiacere dei produttori di coloranti tedeschi e svizzeri. Riuscire a sintetizzarlo avrebbe messo fine a questa dipendenza.
Dal 1876 Adolf Baeyer iniziò a collaborare con Heinrich Caro alla BASF per produrre l’indaco. Baeyer ritenne che l’indolo fosse la "sostanza madre" dell’indaco, nello stesso senso in cui l’antracene è la "madre" dell’alizarina. Ma l’antracene si trova bell’e pronto nel catrame di carbone, mentre non esiste una comoda fonte cui attingere l’indolo. Bisognava ricostruirne la struttura e ciò rendeva la sintesi dell’indaco una sfida ben diversa.19
Baeyer vi riuscì per la prima volta nel 1877, usando come materiale di partenza il toluene, un composto d’alto costo, che ne escludeva l’applicazione industriale. Solo tre anni dopo egli trovò una strada più praticabile, quando ormai la sponsorizzava anche la Hoechst. Questa e altre strategie di sintesi furono brevettate negli anni che seguirono, ma ancora non erano adatte alla commercializzazione. Per Baeyer, l’ostacolo era in parte costituito dalla mancata conoscenza della struttura molecolare del suo obiettivo, a cui giunse solo nel 1883. Questo lavoro, squisitamente pratico, rappresentò un tale progresso nella chimica organica, da fruttare a Baeyer il Premio Nobel nel 1905.
Si dovette attendere il 1890 perché fosse scoperto un valido sistema per produrre indaco su larga scala... e fu Karl Heumann del Politecnico federale svizzero, e non Baeyer, a compiere l’impresa. Heumann escogitò due vie di sintesi per giungere all’indaco partendo da idrocarburi relativamente economici. Una cominciava dal naftalene, che veniva per prima cosa convertito in anidride ftalica; la chiave che rendeva possibile la sintesi dell’indaco era l’accelerazione della reazione con un catalizzatore di solfato di mercurio. Per uno dei casi fortuiti che hanno permesso all’industria dei coloranti di progredire, il catalizzatore fu scoperto in Germania, quando un termometro a mercurio si ruppe durante la produzione di anidride ftalica e il mercurio reagì con l’acido solforico contenuto nella vasca. Ci vollero però altri sette anni perché la produzione dell’indaco prosperasse, indice ulteriore della difficoltà del problema... nonostante la tenacia delle industrie produttrici. Benché all’inizio il costo fosse leggermente superiore a quello del prodotto naturale d’importazione, entro il 1897 la BASF fu in grado di produrre indaco sintetico al prezzo concorrenziale di sedici marchi al chilo, che nei sette anni successivi si ridusse a meno della metà. Nei primi sei mesi del 1900, in Germania furono prodotte 1.000 tonnellate di indaco artificiale e la coltivazione dell’indaco in India cominciò a trovarsi in difficoltà.
Le economie indiane locali, basate su questa coltura, erano completamente alla mercé dei progressi tecnologici che si verificavano nella lontana Europa. Quando dall’Occidente non vi fu più richiesta di esportazioni, l’industria del subcontinente fu abbandonata senza pietà; ironia della sorte, dato che l’Europa aveva appreso l’arte di stampare calicò fine dagli artigiani indiani. Al tempo stesso, vale la pena di ricordare che la coltivazione dell’indaco rappresentava uno spreco incredibile delle risorse della terra: nell’ottobre 1900, l’amministratore delegato della BASF, Heinrich Brunck, propose che i terreni coltivati a indaco fossero riconvertiti alla produzione di alimentari... obiettivo meritevole, se non per il fatto che l’economia indiana era basata sulle esportazioni.
Le ripercussioni della scoperta dell’indaco sintetico furono dolorosamente evidenti in Gran Bretagna. Un rapporto del 1899 dichiarava che «da un punto di vista scientifico, la produzione di indaco sintetico è senza dubbio un’impresa grandiosa, ma se può venir prodotto in grandi quantità a un prezzo tale da rendere la coltura dell’indaco del tutto antieconomica si può considerarla soltanto come una calamità nazionale».20
Nel tentativo di sventare questa crisi, il governo britannico ordinò che tutte le uniformi militari fossero tinte usando solo indaco naturale e non il prodotto sintetico tedesco. Ma era come arrampicarsi sui vetri: all’inizio della Grande Guerra, più del novanta per cento del mercato europeo dell’indaco naturale era sparito, e con esso una quantità corrispondente di terra dedicata alla sua coltivazione in India. L’industria chimica aveva vinto.
La Gran Bretagna tuttavia non cominciò a fabbricare indaco fino al 1916, alla fine costretta dalla necessità di tingere uniformi militari; anche allora fu la tecnologia tedesca a fornire i mezzi. Nel 1909 l’azienda produttrice di coloranti di Meister e Lucius, con in più un terzo partner, Brüning, aveva aperto a Ellesmere Port, vicino a Manchester, uno stabilimento destinato a produrre indaco per il mercato britannico, in barba alla legge tedesca sui brevetti. Durante la guerra la fabbrica venne requisita, e rilevata dall’intraprendente società di Ivan Levinstein di Manchester.
A guerra finita, Levinstein si fuse con la British Dyes Ltd formando la British Dyestuffs Corporation, che a sua volta nel 1926 si unì ad altre ditte divenendo l’Imperial Chemical Industries (ICI). In parte questa unione era un tentativo di competere con i colossi tedeschi, che avevano seguito lo stesso percorso. Nel 1916 un gruppo di produttori di coloranti che gravitavano attorno alla Hoechst si era unito a un consorzio costituito da Bayer, BASF e dalla manifattura berlinese di coloranti Aktiengesellschaft für Anilinfabrikation (Agfa) per divenire il potente Interessengemeinschaft Farbenindustrie AG, o IG Farben. Un commento divertente ma rivelatore sul potere che questo cartello esercitava nella prima metà del XX secolo si trova nel romanzo L’arcobaleno della gravità di Thomas Pinchon (probabilmente lo scrittore con maggiore conoscenza della chimica, a parte Primo Levi) in cui la IG Farben è presentata come la superpotenza occulta che dirige il corso della seconda guerra mondiale. Forse una fantasia, ma non poco plausibile.