Blu del XX secolo
Si prova un certo rammarico nel vedere l’oltremare, l’indiscusso re dei pigmenti del Medioevo, ridotto nel XX secolo al livello di un qualsiasi blu bell’e pronto. È un destino comune per i materiali artistici: da prodotti d’importazione esotici e pregiati, con tutto il mistero delle spezie rare o dell’incenso, ad articoli di largo consumo a buon mercato. Ma si tratta forse di un atteggiamento eccessivo, dato che l’arte ha senz’altro tratto beneficio dall’incredibile ampliamento della tavolozza. E questo corso è continuato nel XX secolo con l’introduzione di altre sfumature di blu.
Il 1935 portò con sé due nuovi pigmenti: il "monastral blue" e il blu di manganese. Il primo è il nome commerciale inglese di una lacca pigmento ottenuta dalla ftalocianina di rame dell’ici. Se ne fecero elogi sperticati – per esempio, che era la «più importante scoperta dopo quella del blu di Prussia e dell’oltremare artificiale» – e non sussistono dubbi sul suo notevole impatto sul mercato. Come pigmento blu, non ha nulla della esuberante sfumatura dell’oltremare; la sua importanza sta piuttosto nel fatto che assorbe quasi completamente il rosso e il giallo, mentre trasmette o riflette l’azzurro e il verde, il che ne fa il ciano ideale per la stampa in tricromia.
Anche il blu di manganese – manganato di bario unito a particelle di solfato di bario – presenta una leggera colorazione verde. Fu brevettato nel 1935 dal cartello tedesco IG Farben, ed era inizialmente usato per colorare il cemento. Non è mai diventato un pigmento di grande rilevanza in pittura: oggigiorno il mercato del blu è spietato se non si ha qualcosa di eccezionale da offrire.
Come già accennato all’inizio di questo capitolo, non si deve andar lontano per trovare temi in azzurro nelle opere del XX secolo. Vorrei scegliere fra tutti Yves Klein per il suo insolito impegno nella tecnologia del colore, che lo portò a inventare un nuovo blu cui fu attribuito il suo nome.
I primi monocromi di Klein dei tardi anni Quaranta e dei primi Cinquanta lo lasciarono infastidito dall’effetto del legante sui pigmenti. Adorava la ricchezza delle polveri asciutte – «che chiarezza, che lustro, che brillanza antica" – ma riconosceva che veniva sempre impoverita quando erano amalgamate con legante per dar luogo a una vernice: «La magia emotiva del colore era svanita. Ogni singolo granello di polvere sembrava essere annientato dalla colla o da qualsiasi altro materiale destinato a fissarlo agli altri e al supporto».9 Klein anelava a trovare un modo che permettesse di mantenere l’intensità del colore puro e realizzarne quindi appieno la capacità di risvegliare le emozioni dell’osservatore.
Si rivolse quindi a Edouard Adam, produttore e rivenditore parigino di materiali per Belle Arti. Col suo aiuto, Klein nel 1955 trovò la soluzione: una resina fissativa denominata Rhodopas M60A, prodotta dall’industria chimica Rhóne-Poulenc, che poteva essere diluita mescolandola con etanolo e acetato d’etile. «Permetteva», affermò, «una libertà totale ai minuscoli frammenti di pigmento come li si trova nella sua forma in polvere, forse combinati tra loro ma tuttavia autonomi».10 Per Klein, l’aspetto opaco e vellutato che ne risultava possedeva una specie di "energia pura", che permetteva a ogni sfumatura di colore di rivelarsi come «una creatura vivente, della stessa specie del colore primario». Usò questo legante per creare superfici monocrome di colori spettacolari: giallo oro, rosa scuro. Scoprì però che il pubblico sembrava apprezzare le sue tele brillanti soprattutto per il loro effetto decorativo, del tutto lontano dalle sue intenzioni: decise quindi di limitarsi a lavorare con un unico colore, che di conseguenza doveva essere veramente straordinario.
E che cosa poteva essere più straordinario del famoso oltremare di Cennini... benché si trattasse ora di un prodotto chimico sintetico, senza più il minimo rapporto con la sua fonte minerale? Ma mentre Cennini si compiaceva per la grandiosità del materiale, Klein era attirato da qualcosa di più astratto: un’idea di azzurro che trascinasse l’osservatore al di là di ogni splendore superficiale. Per lui, l’impegno tecnologico necessario per realizzare questo blu era un mezzo per raggiungere un fine concettuale. Il brevetto del nuovo colore, ‟International Klein Blue", nel 1960, non fu quindi tanto una mossa commerciale quanto, da un lato, una ratifica formale dell’idea metafisica rappresentata dal suo mezzo espressivo,. dall’altro, un’assicurazione contro la possibilità che altri lo usassero in modi che potessero corrompere «l’autenticità dell’idea pura».
La mostra tenuta da Klein a Milano nel 1957, "Proclamazione dell’epoca blu", rivelò il suo programma in una serie di monocromi azzurri. Per porre l’accento sulla sua intenzione di trascendere il superficiale, Klein attribuì a ogni tela un prezzo diverso, nonostante il fatto che fossero tutte "identiche". Il valore, secondo lui, dovrebbe riflettere l’intensità del sentire che la creazione dell’opera aveva richiesto, non il suo aspetto esteriore. Il prodotto era solo una testimonianza di quella energia creativa. Questo insistere sul fare è un tratto permanente del contributo di Klein all’arte moderna.
La mostra di Milano fu un grande successo. A Parigi, dove l’élite dell’avanguardia era incline ad aspre e faziose controversie, l’accoglienza fu più discordante. Ma l’audace concezione di Klein gli procurò il plauso internazionale come "Klein le monochrome". Queste opere di un azzurro scintillante, per lo più identificate con uno schema di numerazione preceduto da "IKB" (tav. 10.5), vanno viste dal vivo per poterle apprezzare come si conviene: non c’è riproduzione che renda loro giustizia. Klein stendeva la pittura con un rullo o con spugne, che nel 1958 cominciò a incorporare nel quadro stesso, conservate con una resina e impregnate di pigmento azzurro.
Via via che la sua opera si estendeva a nuove aree concettuali – l’Epoca Pneumatica focalizzata sul vuoto, le sculture cinetiche con Jean Tinguely, le impronte di corpi o anthropométries – egli restava fedele al suo manifesto blu. Hiroshima (1961) raffigura silhouette azzurre sullo sfondo di uno spazio di un blu più intenso, le membra tese a ricordo delle spettrali ombre bianche delle vittime vaporizzate della bomba atomica. I gioiosi profili azzurri di Gli uomini cominciano a volare (1961) rispecchiano la sua convinzione che l’umanità può superare i propri limiti fisici. La sua squisita offerta votiva (Ex voto al santuario di S. Rita, 1961), del convento di Cascia, porta alla loro logica conclusione le sue aspirazioni coloristiche, presentando pigmenti intatti, racchiusi in plastica trasparente (tav. 10.6): una preghiera accompagnata da una triade primaria di discendenza medievale, oltremare, oro e un modernissimo rosa intenso invece del vermiglione.
Nel mondo rivestito di IKB di Globo blu (1957) e nel topografico Rilievi planetari (1961), Klein rivelava la sua visione utopistica di un pianeta reso piacevole e armonioso da un «miracolo permanente» di regolazione del clima. Nulla servì a rafforzare questa fantasia più delle parole pronunciate da Jurij Gagarin nel 1961, un anno prima della morte prematura di Klein, nel 1962: «Vista dallo spazio, la terra è azzurra».