Fede nell’inchiostro

Benché James Clerk Maxwell si limitasse alla ricostruzione additiva delle sue immagini tricromatiche con la proiezione, non occorreva essere un genio per comprendere che le sue scomposizioni fotografiche si potevano usare per stampe in tricromia avvalendosi delle tecniche esistenti di fotoincisione o fotolitografia. L’idea venne a diverse persone verso il 1860, scatenando contese sulla priorità. Nel 1862 il francese Louis Ducos du Hauron avanzò l’ipotesi che si potessero ottenere lastre da stampa da fotografie esposte attraverso vetro colorato, e nel 1865 un inglese di nome Henry Collen accennò a un concetto analogo in una lettera al British Journal of Photography, benché non fosse al corrente del lavoro di Maxwell, Ciò lo costrinse a cominciare col reinventare la fotografia a colori: «Mi è venuto in mente... questa mattina, che se si scoprissero sostanze sensibili solo ai colori primari... sarebbe possibile ottenere fotografie con i colori della natura con mezzi come i seguenti:... ottenere un negativo sensibile solo ai raggi azzurri ... ».15

Il merito di aver messo in pratica queste idee deve però andare al barone Ransonnet, che nel 1865, a Vienna, cominciò a usare il principio della tricromia per la fotolitografia. In quanto membro della spedizione imperiale austriaca nell’Asia orientale, egli aveva fotografato un tempio cinese e per ricavarne delle stampe iniziò una collaborazione con il litografo viennese Johann Haupt; questi, per ottenere risultati soddisfacenti, si trovò nella necessità di aggiungere due lastre in più, per il nero e per il marrone.

Le emulsioni fotografiche di Vogel sensibilizzate con i coloranti resero più semplice la preparazione delle lastre da stampa con scomposizione di colori, eliminando i filtri colorati; ognuna veniva inchiostrata con lo stesso colore della rispettiva tinta sensibilizzante, in genere giallo, magenta e ciano, più una scomposizione nera per dare risalto: la lastra preparata dall’emulsione sensibile al verde, per fare un esempio, era rivestita con inchiostro magenta.

La considerazione chiave, come comprese Vogel, è che gli inchiostri dovrebbero assorbire luce esattamente nello stesso modo dei sensibilizzanti, altrimenti ricombinando i colori non si può sperare di riprodurre con fedeltà le tinte della scena originaria; per esempio, un inchiostro rossiccio invece che magenta, assorbirà luce azzurra dove, nella stampa finale, dovrebbe rifletterla.

Idealmente, affermava Vogel, i coloranti degli inchiostri dovrebbero essere identici a quelli dei sensibilizzanti: si trattava di un’implicita ingiunzione ai fabbricanti di articoli chimici e fotografici perché abbinassero i loro prodotti. Tuttavia questo non era fattibile, poiché non tutti i coloranti danno inchiostri validi, sia per ragioni chimiche sia economiche. In altre parole, nell’era della fotografia, come nel periodo dell’incisione a mano, il successo della stampa in tricromia era una questione di materiali.

L’esito fu inevitabilmente un compromesso: bisognava accontentarsi degli inchiostri a disposizione. Frederick Ives (che verso il 1880 aveva introdotto il metodo di mezzi toni di Fox Talbot nella stampa fotografica in tricromia) propose nel 1888 di usare il blu di Prussia (che è verdastro), il rosso eosina (che è bluastro) e un "giallo brillante" non meglio identificato. Ma il fotografo E.J. Wall, scrivendo nel 1925, commentava che «gli inchiostri da stampa che si avvicinino maggiormente ai rigidi requisiti teorici... sembrerebbero [rappresentare] il campo dove si può raggiungere il maggior progresso... Gli inchiostri perfetti sono ancora dei desiderata».16 In realtà, gli inchiostri "teoricamente perfetti" sono irraggiungibili. Proprio come per i sensibilizzanti delle pellicole fotografiche, gli inchiostri ideali per la stampa in tricromia dovrebbero assorbire ognuno un terzo dello spettro visibile, in blocchi che non si sovrappongono (fig. 12.4). Ma la fisica del processo di assorbimento della luce non lo permette: gli inchiostri reali hanno bande d’assorbimento dai bordi sfumati che invadono l’uno lo spazio dell’altro; il che limita la loro capacità di riprodurre accuratamente i colori quando vengono sovrapposti.

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FIGURA 12.4 Idealmente, gli inchiostri usati per la stampa a colori dovrebbero assorbire luce in bande di lunghezze d’onda definite in modo netto, senza sovrapposizioni, ma in pratica questo obiettivo non può essere raggiunto e le bande di assorbimento si sovrappongono un po’, compromettendo la fedeltà della riproduzione a colori.

È possibile giudicare, esaminando le stampe a colori di vecchi libri, la maggiore o minore efficacia con cui gli inchiostri da stampa hanno fatto fronte a queste manchevolezze. Per chi è troppo giovane per ricordarseli in prima persona, è difficile sottrarsi all’impressione che gli eventi mondiali del secondo dopoguerra si siano verificati in uno splendore al Technicolor sovraccarico di labbra rosso rubino e cieli azzurro ftalocianina, proprio come la prima guerra mondiale si era svolta in bianco e nero.

La misura in cui una stampa è fedele all’originale sarà sempre condizionata dalla qualità degli inchiostri, che rappresentano i mattoni cromatici con i quali si deve ricreare ogni colore esistente al mondo, che non potrà mai essere altro che un’approssimazione. Il vermiglione, per esempio, ha una sfumatura unica, una maniera caratteristica di toccare le molte corde dello spettro; imitarlo partendo da ciano, giallo e magenta – ognuno dei quali ha il proprio insieme di armonie – è come tentare di riprodurre il suono di una tromba mescolando, in diverse proporzioni, le note di un pianoforte, di un flauto e di una tuba. Si può cercare di raggiungere lo stesso risultato con un trio di strumenti differente e ottenere un’approssimazione più o meno fedele. Così l’impressione del ricco vermiglione di un trittico medievale ricavata da un libro illustrato dipende prevalentemente dalla scelta degli inchiostri operata dallo stampatore. L’unica affermazione indiscutibile è che questa impressione non potrà mai essere identica a quella che si proverebbe davanti al dipinto originale.

Ansiosa di esorcizzare queste preoccupazioni, nel 1920 la rivista inglese d’arte Colour riportava alcune dichiarazioni di parecchi "grandi artisti" sull’accuratezza delle loro stampe. Tuttavia, almeno fino al 1950-60, gli storici dell’arte furono sempre riluttanti ad accettare la fotografia a colori - anche le stampe fotografiche, per non parlare delle riproduzioni dei libri – come valido mezzo per registrare immagini.

Fino agli anni Sessanta, secondo lo storico dell’arte Edgar Wind la riproduzione fotografica a colori dei dipinti era e9788858628270_i0084.jpg così primitiva che era meglio basarsi su immagini in bianco e nero. Scriveva: «Poiché la normale lastra fotografica è sensibile a una gamma di sfumature più ampia di quelle che si possono registrare a colori, la miglior riproduzione in bianco e nero di un Tiziano, di un Veronese o di un Renoir è paragonabile a un’accurata trascrizione per pianoforte di una partitura per orchestra, mentre la stampa a colori, con alcune eccezioni, è come un’orchestra ridotta, con tutti gli strumenti fuori tono».17 A giudicare da alcuni libri dell’epoca, non aveva tutti i torti. John Gage commenta che l’uso di diapositive a colori durante le lezioni d’arte a Cambridge era allora l’eccezione e non la regola.

Colore. Una biografia: tra arte, storia e chimica, la bellezza e i misteri del mondo del colore
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