I primi chimici
Rispetto alle altre scienze, la chimica possiede l’inconsueta caratteristica di venir definita in ugual misura sia dall’empirismo sia dalla conoscenza teorica: da ciò che fa come da ciò che dice. E la scienza della trasformazione della materia, e questa – va detto – si può ottenere altrettanto efficacemente attenendosi ciecamente a un ricettario, come seguendo una progettazione consapevole. Ma, collocando tra questi due poli la linea che divide la "vera scienza" dalla tecnologia, si fa solo del revisionismo: imposizione di criteri moderni alla storia passata.3 Il fatto che gli antichi Egizi fossero in grado di praticare una chimica di poco meno raffinata rispetto a quella dei chimici europei vissuti quattro millenni più tardi spinge sicuramente a chiedersi perché mai si dovrebbe scegliere di considerare l’una e non l’altra come scienza quantitativa e riproducibile.
Il pigmento azzurro noto come "fritta egizia" o "blu egizio", che è stato individuato in manufatti risalenti a circa il 2500 a.C., non è frutto di un colpo di fortuna, un prodotto ottenuto accidentalmente fondendo insieme a casaccio vari materiali naturali: è il risultato intenzionale di un lavoro consapevole, una miscela di una parte di calce (ossido di calcio) e una parte di ossido di rame, con quattro parti di quarzo (silice). Le materie prime sono minerali: gesso o calcare, un minerale di rame come la malachite e sabbia vengono cotti in una fornace a temperature oscillanti fra gli 800 e i 900°C; la temperatura è cruciale, e si deve ritenere che gli Egizi fossero in grado di controllare le condizioni di cottura con notevole precisione. Il risultato è un materiale fragile blu, opaco, che viene trasformato in pigmento macinandolo fino a ridurlo a una polvere: è il più antico pigmento di sintesi, un blu dell’Età del Bronzo.
La trasformazione di materie prime in prodotti per artisti nell’antico Egitto era un compito che richiedeva una conoscenza altamente specializzata e notevole abilità pratica. In che modo, per esempio, i loro pittori avrebbero potuto rifornirsi del pigmento di sintesi antimoniato di piombo? La storia del nome di questa sostanza giallo pallido è molto tormentata: come giallolino, nel Medioevo, non fu mai distinta con chiarezza da parecchi altri pigmenti gialli a base di piombo, e l’etichetta "giallo di Napoli" attribuitale nel XVII secolo oggi indica una tinta particolare più che un composto chimico.4 Si ignora come la chiamassero gli Egizi, che peraltro sapevano come produrla utilizzando reagenti a loro volta sintetici: ossido o carbonato di piombo, e ossido d’antimonio, ottenuti entrambi dalla trasformazione chimica di minerali.
Questo genere di manipolazione dei materiali naturali rivela che la civiltà dell’antico Egitto possedeva una reale padronanza della chimica.5 Non sarebbe troppo azzardato ipotizzare che una tecnologia tanto organizzata – si potrebbe ragionevolmente definirla un’industria – caratterizzi a sua volta una civiltà. Gli artisti paleolitici decoravano le pareti delle caverne almeno 30.000 anni fa, molto prima che finisse l’ultima glaciazione, e non mancava loro l’abilità nell’usare gli opachi pigmenti di terra allora disponibili. Le pitture rupestri di Lascaux, Altamira e dei Pirenei mostrano un’eleganza di linee altrettanto raffinata delle pitture murali egizie di parecchi millenni posteriori. Ma qualsiasi interpretazione gli antropologi possano attribuire a questi segni, non parlano nello stesso modo dell’ordine sociale e della divisione gerarchica del lavoro che si nota in Egitto. Non sono il prodotto di una cultura i cui cittadini hanno un mestiere da offrire.
È un’ingiustizia della storia che i più antichi innovatori scientifici – paragonabili a Newton, Lavoisier e Darwin – siano vissuti senza riuscire a tramandare i loro nomi ai posteri. Non è più possibile erigere monumenti a colui che intorno al 3500 a.C. scoprì come strappare il rame dal minerale grezzo, e compiere perciò l’immenso salto dalla produzione fisica dei manufatti a quella chimica. Neppure l’inventore del bronzo dalla cofusione dei minerali di stagno e rame è degnamente ricordato, e nemmeno colui che, poco prima dell’epoca di Omero, nel 1000 a.C., ricavò il ferro dai suoi ossidi. Se la storia della scienza insegna qualcosa, comunque, è che scoperte come queste non avvengono per caso: la fortuna può offrire una possibilità in più ma, come affermò Louis Pasteur, «solo una mente percettiva e recettiva la trasforma in una scoperta». Considerare o meno queste innovazioni come scienza agli albori è fuori tema. Per l’artista primitivo fabbricare i colori era un aspetto essenziale dell’arte.