Capitolo Secondo
DIPANARE L’ARCOBALENO
La fisica e la chimica del colore
Non esiste il colore, solo materiali colorati.
JEAN DUBUFFET
La natura inorganica possiede solo il linguaggio del colore. Tramite il colore soltanto una certa pietra ci dice se è uno zaffiro o uno smeraldo.
CHARLES BLANC
Grammaire des arts du dessin (1867)
Che cos’è in fondo la vernice? Sporcizia colorata.
PHILIP GUSTON
Nel tiro alla fune tra arte e scienza si è molto speculato sul «dipanare l’arcobaleno», secondo l’espressione usata da John Keats a proposito di Isaac Newton in Lamia (1819), un lamento poetico sugli effetti nocivi (tali li considerava) della conoscenza scientifica sui misteri e le meraviglie del mondo. Tuttavia, nell’arte i fili dell’arco luminoso restarono aggrovigliati per molto tempo, dopo che Newton ne aveva enunciata la sequenza prismatica. Non c’è da stupirsi che per opporsi alla natura un antinewtoniano come Goethe risistemasse i colori; ma perfino John Constable, acuto osservatore della natura, notoriamente sbagliava l’ordine dell’arco secondario (dove la sequenza è invertita). L’artista preraffaellita John Everett Millais dovette correggere in fretta e furia il medesimo errore nel suo La giovane cieca (1856), dopo che glielo ebbero fatto notare.
L’impresa di Newton non doveva comunque dimostrare che la luce del giorno era intessuta di molte tonalità separate nell’arcobaleno. Tutto ciò era da tempo evidente nello spettro prodotto dalla luce del sole quando essa passa attraverso il vetro, e non fu Newton a dimostrare come questa si concentri in un segmento semicircolare dalla rifrazione all’ interno di goccioline d’acqua contenute nell’aria umida. Già nel 1637 Cartesio aveva fornito una spiegazione scientifica elementare circa la formazione dell’arcobaleno; ma Newton aggiunse colore all’arco bianco del filosofo francese, identificando i colori "irriducibili" dell’arcobaleno, e mostrando che ognuno di loro viene rifratto con angoli leggermente diversi. Nell’Experimentum crucis condotto verso il 1665-66, Newton dedusse che «la luce stessa è una mescolanza eterogenea di raggi diversamente rifrangibili», e dimostrò che questi raggi, separati facendoli passare attraverso un prisma in una camera buia, erano «colori non composti», che non potevano essere ulteriormente divisi da un secondo prisma; passando attraverso una lente, si fondevano di nuovo in un fascio di luce bianca.
Scienziati desiderosi di celebrare il riduzionismo di Newton, e artisti ansiosi di criticarlo, trascurano il potente filone mistico presente nel suo lavoro, atteggiamento che sembra strano oggi, quando la lente dei secoli ci permette di separare la scienza dalla magia, ma era del tutto coerente con lo spirito del suo tempo che Newton trovasse giusto suddividere in modo arbitrario lo spettro prismatico in sette parti al solo fine di stabilire un parallelo con la scala armonica musicale. «Diversi tipi di raggi non producono forse vibrazioni di diverse ampiezze? Che, secondo la loro luminosità, suscitano sensazioni di diversi colori in modo molto simile a quello in cui le vibrazioni dell’aria – secondo diverse ampiezze – suscitano sensazioni di suoni diversi?»1 E così, l’arcobaleno newtoniano ottenne i suoi indaco e violetto, in cui sfido chiunque a vedere qualcosa di diverso da un blu che vira al porpora.
Il colore deriva dal "dipanare" questo arcobaleno; l’analogia con la musica, voluta da Newton, è erronea dal punto di vista concreto, ma utile come metafora. La materia canta con molte note e corde diverse sulla scala cromatica. Quando le risonanze vibrano nel bagliore del "rumore" bianco costituito dalla luce solare, queste note vengono assorbite dallo stimolo multitonale, e si spengono nell’eco; si percepisce come colore quel che resta, quando il materiale ha assorbito la propria peculiare armonia. Una bacca rossa canta sulle note del verde e dell’azzurro; un fiore giallo canta sulla melodia del blu e del rosso.
Gli artisti hanno espresso opinioni divergenti sul valore delle teorie scientifiche del colore: alcuni hanno trovato che non fosse indispensabile comprenderlo scientificamente. A dispetto del titolo, Science de la peinture (La scienza della pittura, 1891) dell’artista e accademico francese Jean-Georges Vibert contiene una satira pungente sugli scienziati del XIX secolo che pretendevano di scoprire la "verità" sul colore. Veronese, Rubens e Delacroix sono più adatti di qualsiasi scienziato a istruire l’artista sul colore – dice Vibert – perché «con i loro colori creano un linguaggio che parla all’anima, che comunica emozione e vita».
Ritengo probabile che Vibert avesse ragione: Delacroix mostrò un certo interesse per le teorie del suo tempo sul colore, ma gli antichi maestri crearono i loro miracoli grazie a una sensibilità coloristica istintiva, per nulla influenzata dalle scoperte di Newton. I neoimpressionisti Georges Seurat e Paul Signac ambivano a un uso assolutamente scientifico del colore in pittura... ma il risultato, per ammissione dello stesso Signac, poteva essere «grigio e incolore». I pittori traggono vantaggio da qualche nozione su un uso efficace del colore, ma questo equivale a impadronirsi di regole pratiche, che non richiedono una solida base di conoscenza teoretica della fisica del colore; in effetti, i trucchi impiegati con conoscenza di causa dagli impressionisti si possono trovare in alcune opere di artisti rinascimentali, giunti empiricamente alle stesse conclusioni. «Tentare di dipingere secondo regole scientifiche circa l’uso del colore», affermava Paul Klee, «significa rinunciare alla ricchezza dell’anima».
Tuttavia, per varie ragioni questo capitolo sulla scienza del colore è indispensabile nell’economia del libro. Poiché parlerò in primo luogo del ruolo concreto della scienza nell’arte – comprendente le tecniche di produzione del colore – piuttosto che di quello astratto e teorico, potrei lasciare in ombra il fatto che il rame fornisce i blu e i verdi, mentre i rossi e i bianchi si possono ottenere da composti di piombo; ma solo conoscendo il “perché” si possono capire a fondo i fattori sociali e tecnologici che hanno portato questi colori sulla tavolozza. Inoltre, alcuni fatti fondamentali sulla miscelazione dei colori hanno uno stretto rapporto con l’uso che i pittori hanno fatto dei loro pigmenti puri e scintillanti (che lo sapessero o meno). Perché ciò non sembri una scusa di Logos a Eros, dovrei riconsiderare la mia affermazione che in fondo la differenza tra i due è solo un’idea relativamente moderna. Sono certo che Leonardo avrebbe biasimato qualsiasi libro che pretendesse di parlare del colore senza spiegarlo.