La nuova maniera
La riforma luterana generò la Controriforma quasi anticipando la legge di Newton di azione e reazione; fu l’ultimo tentativo della teocrazia di affermare il proprio dominio, prima che l’Illuminismo bandisse per sempre il Regno di Dio dal centro dell’universo. La Chiesa, vedendo la propria autorità minata dal razionalismo umanista, serrò i ranghi e impose un corpus di valori teologici simile a quello del Medioevo: la cultura classica (cioè precristiana) secondo la Roma papale poteva andar bene, ma l’arbitro ultimo di tutte le questioni di coscienza era Dio (o i suoi rappresentanti sulla Terra) non la scienza o la natura. La Società di Gesù e l’Inquisizione offrirono i propri servigi come giudici e custodi della coscienza dell’Uomo.
I reazionari ecclesiastici erano abbastanza sofisticati da capire che l’arte è un potente strumento di propaganda: le immagini – il testo potenziale di una "bibbia degli analfabeti" – parlano agli incolti, quando non ci riescono le parole. Al Concilio di Trento che aprì i suoi lavori riguardo la politica della Chiesa nel 1545, fu decretato, con una laboriosa codificazione, che l’arte religiosa dovesse raffigurare le cose in modo inequivocabile: tutti gli angeli devono avere le ali, tutti i santi le aureole; se la loro identità non è esplicita, devono avere etichette, a dispetto di qualunque esigenza di realismo o di estetica. I colori tornarono a essere brillanti per suscitare immediatamente le necessarie emozioni; la nudità era malvista, anche nei casi in cui sembrava avesse una giustificazione biblica; la pruderie imperava: le figure nude del Giudizio Universale di Michelangelo che adornano la Cappella Sistina furono molto discusse e papa Paolo IV ordinò che si dipingessero panneggi sui lombi esposti, altri furono aggiunti per ordine di Pio IV. Anche così, l’affresco sfuggì a stento a una completa distruzione (ed El Greco furbescamente si offrì di sostituire il tutto con un lavoro «modesto e decente, e non meno ben dipinto dell’altro»). Nel 1582 lo scultore Bartolomeo Ammannati dichiarò che se fosse stato possibile avrebbe distrutto tutte le immagini di uomini e donne nude che aveva scolpito in precedenza: un atteggiamento forse insolitamente spinto tra gli artisti, ma che tuttavia parla dello spirito dell’epoca.
Coloro che continuavano a tener vivo l’umanesimo del Rinascimento rischiavano la censura se non peggio. Nel 1573, Paolo Veronese (1528 ca.-1588) fu costretto a difendere la Cena in casa di Levi davanti all’Inquisizione che pretendeva di sapere perché l’opera contenesse figure non menzionate nella Bibbia; egli confessò ingenuamente che erano lì per riempire lo spazio (e ce n’era tantissimo), e tuttavia gli fu ordinato di rifare il quadro. La pedanteria riguardo la Bibbia era all’ordine del giorno.
Tutto ciò parrebbe implicare che i controriformisti cercassero un ritorno a una specie di austera semplicità medievale, e in effetti era proprio quanto volevano alcuni di loro, come i papi Paolo IV e Pio V. Ma verso la fine del XVI secolo fu chiaro che era necessario un atteggiamento più energico per combattere la crescita del Protestantesimo: i Gesuiti compresero che l’emozione estatica, non la rigida astinenza, era il mezzo migliore per far leva sul cuore degli uomini. La loro strategia anti-intellettuale condizionò la Controriforma dal 1620 circa, ma lasciò un’impronta sulle arti molto prima di questa data.
Non c’è da meravigliarsi molto che in un simile clima l’insistenza di Leonardo sull’osservazione e la misurazione puntigliose cadesse nel vuoto. Nel 1607 il presidente dell’Accademia del Disegno di Roma, l’architetto e pittore Federico Zuccari (1543 ca.-1609) era pronto a dichiarare: «L’arte della pittura non deriva dalle scienze matematiche, né ha alcun bisogno di ricorrere ad esse per apprendere regole o mezzi per la propria arte, e neppure per ragionare astrattamente su quest’arte: poiché la pittura non è figlia della matematica, ma della natura e del disegno».1
Zuccari, influente teorico dell’epoca, si trova in uno strano frangente: benché abbia tendenze mistiche e opposte agli aspetti razionali dell’Umanesimo, condanna gli eccessi del Manierismo che considera responsabile di aver aperto la strada al declino dell’arte italiana. Si lamenta del capriccio, della frenesia, dell’inventiva scatenata e bizzarra dei primi manieristi; ciononostante è difficile considerare le sue opere immuni da un pizzico di questi impulsi eccentrici.
La sperimentazione selvaggia del Manierismo ricevette senza dubbio l’approvazione dall’antirazionalismo controriformistico, ma non può essergli del tutto attribuita; entro la metà del XVI secolo, molti artisti accademici italiani erano già arrivati ad adottare la stilizzazione cerimoniosa caratteristica del Manierismo. Il valore di un’opera era visto sempre più come funzione della reputazione e del «giudizio» di cui godeva l’artista, indipendentemente dalle sue abilità tecniche; questo atteggiamento pervade gli scritti del Vasari, per il quale il requisito essenziale dell’arte è il buongusto. Mentre formalmente approva la necessità di imitare la natura, egli esorta il pittore a superarla in eccellenza e a sviluppare uno sguardo colto piuttosto che una mente matematica. In una dichiarazione atta ad avallare ogni tipo di arbitrario snobismo artistico, Vasari afferma che la più alta virtù di un artista – la grazia – è un dono naturale e non può essere acquisito da alcuno sforzo per quanto diligente; questa raffinatezza – dice – è esemplificata da opere che nascondono ogni segno dello sforzo che hanno richiesto. Egli liquida Tiziano come troppo fedele alla natura («alcuni aspetti della quale tendono a essere meno che belli») e innalza invece Raffaello come esponente del colore aggraziato. Considera l’arte «tedesca» (gotica) come particolarmente odiosa: barbara e piena di «confusione e disordine».
Trascurando le regole naturali di proporzione e composizione, giudicati e giudicanti solo in base a considerazioni di gusto soggettive e ridotti quasi alla disperazione dalla straordinaria esplosione di genio che li aveva preceduti, i manieristi ricorsero a espedienti stravaganti, nel tentativo di attirare l’attenzione. Uno degli esempi più famosi ne è la Madonna dal collo lungo (1535 ca.) del Parmigianino, sicuramente in lizza per il titolo di più brutto di tutti i "grandi" dipinti: l’elegante sterile Vergine ha un collo e delle dita di proporzioni quasi assurde, mentre la testa del Bambino è abbinata a un corpo di fanciullo molto più grande; che questa ingegnosità passasse o meno per bellezza o grazia agli occhi dei cortigiani italiani, oggi merita certamente di essere definita "di maniera".
Zuccari non era il solo ad affermare che questa esagerazione aveva causato una generale decadenza dell’arte. L’unico antidoto, sembrava, era studiare ed emulare le tecniche dei maestri rinascimentali; questa lamentela doveva riecheggiare nei due secoli successivi, al punto che intorno al 1790 la pretesa riscoperta del "segreto veneziano" – le tecniche e i materiali usati da Tiziano e dai suoi contemporanei – fu accettata con credula eccitazione.
E così i pittori del tardo XVI e del primo XVII secolo lavorarono in un contesto soffocato dalla nuova intolleranza religiosa, ma surriscaldato da passione devota. Erano assolutamente consapevoli degli eccelsi risultati ottenuti dai loro immediati predecessori, tuttavia le regole con cui queste opere erano state create non esistevano più. Ognuno doveva cercare per conto proprio l’uscita da questo labirinto.