Dal monastero alle corporazioni
Sullo sfondo di questa storia variegata della trasmissione delle conoscenze tecniche nelle arti e nei mestieri, il libro di Teofilo si distingue per la sua chiarezza e la sua immediatezza insolite. Non è una collezione casuale di frammenti di libri antichi, ma presenta sistematicamente le tecniche messe in opera dall’artista. In effetti, a differenza dagli autori della maggior parte delle raccolte di ricette, Teofilo era egli stesso un artista di professione: le sue formule portano il segno dell’esperienza, e non vi è richiesta di segretezza, ma al contrario un invito alla disponibilità: «Che [l’artigiano] non nasconda i suoi doni nella sacca dell’invidia o li celi nel magazzino di un cuore egoista, ma... che li dispensi semplicemente e gioiosamente a coloro che cercano».9
Per Teofilo, l’arte era un’attività devota, il cui scopo era glorificare Dio; in questo senso egli esemplifica il pittore del XII secolo: un monaco il cui lavoro è unicamente religioso e che è esperto in una varietà di arti e mestieri, comprese la miniatura di codici e la fabbricazione di oggetti in metallo. Tutte, inclusa la pittura, venivano praticate in modo anonimo: occasioni di meditazione pia piuttosto che di esibizione personale. All’inizio del Medioevo anche le opere dei laici sono in genere prive di firma e il corpus più ampio di arte religiosa in quest’epoca consiste di codici miniati, il lavoro diligente e spesso splendido di innumerevoli monaci senza nome.
Nel libro di Teofilo si dice poco sul disegno e la composizione. L’attenzione è tutta concentrata sulle tecniche e sui materiali e ciò rafforza l’impressione che gran parte della pittura monastica seguisse una formula; il monaco non aveva bisogno di linee guida su come comporre una scena: si limitava a copiarne un’altra. La sua scelta di stile e materiali rispecchiava una visione del mondo in cui icone e immagini non sono semplicemente simboli di devozione, ma sono investite del potere di influenzare la vita quotidiana. Parecchie miniature raffigurano pittori salvati dalla sventura mentre lavorano a immagini della Vergine Maria; in una di queste, proveniente da Las Cantigas del re di Castiglia Alfonso il Saggio, il diavolo fa crollare il ponteggio di un pittore, che però si salva dalla caduta aggrappandosi all’immagine della Vergine a cui sta lavorando (fig. 4.2). Non bisogna lasciarsi fuorviare dalla somiglianza con un fumetto divertente: scene di questo genere dimostrano quanto fosse radicata la convinzione che un’immagine o un dipinto ben eseguiti possedessero una reale efficacia religiosa. L’uso da parte degli artisti di materiali preziosi come l’oro e l’oltremare non indica soltanto un desiderio di manifestare la propria devozione senza badare a spese, ma rivela la speranza che il potere soprannaturale dell’opera ne sia esaltato.
Tra l’XI e il XIV secolo, però, la pratica della pittura passò dai monasteri alle città, dove fu svolta da professionisti laici che mettevano a disposizione la propria abilità a pagamento; inevitabilmente, questo provocò conseguenze sia sulle tecniche di lavorazione sia sulle opere d’arte prodotte. Anche se a volte si pone eccessiva enfasi sulla distinzione tra artisti monastici e laici (questi ultimi spesso venivano ingaggiati dai monasteri, dopodiché decidevano di fermarcisi e diventare a loro volta monaci), in effetti i pittori andarono trasformandosi sempre più in esponenti di una professione, appartenenti cioè a una corporazione ben definita. Essi praticavano un mestiere come un altro: alla pari del falegname, del vasaio, del panettiere e del tessitore, il pittore metteva a disposizione la propria abilità tecnica dietro compenso. Non si vergognava di chiedere al fornaio di usare il forno per preparare la carbonella da utilizzare come pigmento nero; né un artista avrebbe disprezzato un cuoco, col quale condivideva molte abilità manuali. Cennino Cennini, quando spiega che l’intonaco dovrebbe essere preparato come una pastella, dà per scontato che l’artista capisca perfettamente ciò che egli intende dire.
Una delle conseguenze di questa transizione dal monaco all’artigiano fu una maggiore specializzazione: i pittori erano solo pittori, da non confondersi con i miniaturisti, con i tintori, oppure con chi lavorava il legno o il metallo. Queste distinzioni erano rigidamente applicate dalle corporazioni, che si erano sviluppate per salvaguardare il lavoro degli artigiani dalla concorrenza e dall’incertezza economica, e guai se un pittore fosse stato chiamato a miniare un codice. Si operavano perfino sottili distinzioni tra i pittori stessi: nella Spagna del XV secolo si potevano trovare specialisti in pale d’altare, nella pittura su stoffa e nella decorazione d’interni. In concomitanza con queste suddivisioni, esisteva una gerarchia di mestieri in cui lo status sociale tendeva a rispecchiare il valore dei materiali: gli orafi erano gli artigiani più prestigiosi e potenti, i pittori erano un po’ più umili e i falegnami ancor di più. Le gilde si spingevano fino a proibire l’uso dei pigmenti più pregiati, come l’oltremare, per scopi volgari come dipingere le carte da gioco, i carretti o «i trespoli per pappagalli». Così, questi pigmenti costosi contribuivano a codificare la posizione sociale dei pittori: era nel loro interesse usare materiali raffinati.
Tuttavia, la pittura era ancora considerata un’arte meccanica. Esistevano i buoni e i cattivi pittori, naturalmente, ma il compito del pittore era attenersi alle istruzioni del committente, non abbandonarsi all’ispirazione artistica. Era chi conferiva l’incarico – il mecenate o patrono – a dettare le regole del gioco; inizialmente, i mecenati dei pittori laici, se non erano ecclesiastici, appartenevano per lo più a famiglie reali o aristocratiche e il pittore poteva ritrovarsi a far parte di una corte. Ma nel tardo Medioevo, con l’emergere di un’agiata classe media la base della committenza si ampliò e gli artisti riuscirono a raccogliere ordinazioni nei ceti mercantili della società.
I mecenati non erano famosi per l’originalità dei loro gusti: accadeva spesso che richiedessero un dipinto che seguisse la falsariga di un altro che li aveva particolarmente colpiti. L’artista poteva trovare spazio per l’inventiva personale nell’esecuzione del soggetto assegnatogli, ma con un sistema del genere il conservatorismo finiva col prevalere. Era tale il potere del mecenate nel determinare il soggetto di un dipinto, che nella terminologia medievale di alcuni paesi "patron" è sinonimo di "disegno".
Era sempre il mecenate, inoltre, a specificare i materiali da usare, insistendo in genere sui più opulenti e preziosi, pur pretendendo che il pittore non esagerasse nella richiesta di compenso. Un committente poteva persino indicare il fornitore da cui l’artista doveva comprare i materiali... sia con un accordo scritto nel contratto sia stabilendo un prezzo per i pigmenti più costosi, a garanzia che il pittore non li acquistasse a una cifra, ma anche a una qualità, inferiori; si poteva addirittura richiedere l’intervento di ispettori per controllare che il pittore avesse rispettato gli impegni contrattuali riguardanti i pigmenti.
Tuttavia, molti committenti non erano contrari al risparmio e le corporazioni dei pittori si trovavano spesso a dover insistere perché ai loro membri fosse permesso usare materiali di buona qualità, di fronte ai tentativi di far eseguire un lavoro a buon mercato.
A far parte di una corporazione si giungeva con l’apprendistato. Gli aspiranti pittori dovevano sottoporsi a un periodo di addestramento – che poteva durare da quattro a otto anni – in una bottega, cominciando, come fanno tutti gli apprendisti, dalle mansioni più umili, come macinare i pigmenti e preparare la colla. La macinazione dei pigmenti era un lavoro particolarmente lungo e faticoso, e nel programmare la realizzazione dell’opera il pittore doveva prevedere di dedicare parecchi giorni solo a questa incombenza (tav. 4.2.). Per ottenere la qualifica di "maestro", autorizzato ad accettare commissioni, l’apprendista doveva sottoporre un "capolavoro" – un saggio della sua abilità – all’approvazione della gilda. Strano quindi che questo termine abbia finito con l’indicare l’opera più compiuta di un artista, piuttosto che il suo primo tentativo di ottenere un riconoscimento.
La bottega accettava l’incarico come gruppo, proprio come i costruttori o i carpentieri che svolgevano il lavoro tutti assieme (e fanno peraltro ancor oggi). Il maestro – o "magister" – era responsabile dell’esecuzione complessiva del lavoro, ma la stesura del colore sulla superficie era responsabilità dei suoi apprendisti tanto quanto sua, se non di più. Così, le firme che appaiono sull’arte tardomedievale sono semplici "marchi di fabbrica" indicanti il nome del maestro di bottega. Questo addestramento tradizionale riconosceva poco valore al talento o all’ispirazione personali: si diventava pittori semplicemente a forza di duro lavoro, dedizione e attenendosi alle richieste del maestro. L’"abilità", che Teofilo chiama ingenium, era frutto della diligenza.
Il Libro dell’arte di Cennini fu scritto all’interno di questo contesto sociale, perché fosse, secondo il suo desiderio, utile a «confortar tutti quelli che all’arte vogliono venire», non a maggior gloria di Dio. Per lui, l’ispirazione che spinge una persona a diventare artista non è divina, nonostante la sua invocazione a «Iddio onnipotente, cioè Padre Figliuolo Spirito Santo». Si tratta solo del piacere della creazione di arte, benché la motivazione finanziaria non sia da disprezzare: «Alcuni sono, che per povertà e necessità del vivere seguitano, sì per guadagno e anche per l’amor dell’arte; ma, sopra tutti quelli, da commendare è quelli che per amore e per gentilezza all’arte predetta vengono».10
Questo spirito umanistico prefigura il Rinascimento, ma benché il libro di Cennini sia opera tardotrecentesca, la sua visuale è ancorata al Medioevo e i suoi metodi e i suoi atteggiamenti denotano continuità con le pratiche medievali descritte da Teofilo quasi tre secoli prima.