Capitolo Tredicesimo
LA MENTE SOPRA LA MATERIA
Il colore come forma di modernismo
La nuova arte comincerà davvero quando capiremo che il colore ha un’esistenza sua propria, che le sue infinite combinazioni hanno una poesia e un linguaggio poetico molto più espressivi di qualsiasi altra cosa mai esistita prima.
SONIA DELAUNAY
I colori ti conquistano sempre più. Un certo azzurro entra nel- l’anima. Un certo rosso ha un effetto sulla pressione sanguigna. Un certo colore tonifica. È la concentrazione di timbri. Si sta aprendo una nuova era.
HENRI MATISSE
Già dal Medioevo i pittori si accorgevano costantemente di quanto la loro tavolozza fosse inadeguata per cogliere la vera gloria del Creato. Verso la metà dell’Ottocento il fabbricante di colori George Field osservò che i maestri del passato erano stati costretti a «cercare un’armonia molto più limitata di quella della natura» perché i loro pigmenti non erano abbastanza brillanti. Hermann von Helmholtz fu d’accordo: «La rappresentazione che il pittore deve dare della luce e dei colori dell’oggetto... non può fornirne una copia esatta in tutti i dettagli. In molti casi la scala di brillanza alterata che l’artista deve usare gli è di ostacolo».1
Persino con la sua tavolozza moderna, Cézanne riconosceva questo limite con angoscia evidente: «Non riesco a raggiungere l’intensità che si dispiega davanti ai miei sensi. Non ho a disposizione la magnificenza e la ricchezza di colori che anima la Natura». Van Gogh sembra aver accettato questa carenza: «È meglio che un pittore cominci dai colori della propria tavolozza che da quelli della Natura».
Ma sin da quando Turner cominciò a usare i nuovi pigmenti brillanti, in pittura andò affermandosi l’opinione generale che il compito del pittore non fosse più quello di rappresentare fedelmente la natura. Il cammino verso l’astrazione si poteva già scorgere nella liberazione dal colore "naturalistico", anticipata da Van Gogh, Cézanne ed Henri Matisse (1869-1954); «La verità», dichiarò questi, «era che ci tenevamo lontani il più possibile dai colori imitativi».
Il risultato fu un’esplosione di tinte unite e di primari forti. «Uso i colori più semplici», affermava ancora Matisse, «non li trasformo io, ci pensano i loro rapporti.» Gli interni rossi di La desserte (1908) e L’atelier rosso (1911) sono quasi opprimenti nella loro bidimensionalità assoluta, che nega l’illusione del volume pittorico. Come dice dell’Atelier rosso il critico John Russel: «È un momento cruciale nella storia della pittura: il colore è al vertice, e ne trae il massimo vantaggio».