Città di colore
Se si vuol capire fino a che punto l’uso del colore nel Rinascimento fu intrecciato con il volgare mercato e il vile denaro, si può gettare un’occhiata nel vivace crogiolo dove i pigmenti esotici provenienti dall’Oriente venivano sbarcati durante il loro viaggio verso l’Europa occidentale: Venezia. Il suo porto commerciava col mondo arabo fin dal IX secolo; Martin da Canal scrisse nella sua Cronique des Venitiens (Cronaca dei Veneziani, 1267-75) che «la mercanzia passa attraverso questa nobile città come l’acqua scorre attraverso le fontane». Dalle isole egee provenivano zucchero e vino, dall’Estremo Oriente spezie, porcellana e perle. Europa settentrionale forniva minerali, metalli e tessuti di lana, mentre l’Egitto e l’Asia Minore erano fonti di gemme, tinture, profumi, ceramiche, pigmenti, allume e tessuti preziosi.
Venezia era anche il principale canale di penetrazione per l’arte bizantina, portata in Occidente da Costantinopoli a seguito delle crociate del XIII e XIV secolo, cui prese parte la marina veneziana. Era un’arte risplendente di abbacinanti lavori di oreficeria e usava ricchi colori per dare un’impressione di luce e di spazio. Furono queste caratteristiche, non le prospettive matematiche del Brunelleschi, a dominare il pensiero degli artisti veneziani: benché usassero la prospettiva, restavano fedeli a un’ideale di spazio come qualcosa di sperimentato, di visto e sentito, non ottenuto con calcoli geometrici.
Pare probabile che il clima stesso della città abbia avuto un ruolo nel determinare lo stile veneziano: l’atmosfera velata crea cambiamenti di luce quasi impercettibili, i canali gettano forti riflessi e le forme tendono a essere sfocate, rispetto alla dura lucentezza della Toscana e dell’Italia centrale. I mosaici in stile bizantino che rendono tanto splendente la basilica di San Marco abituarono i pittori di questa città agli effetti ottici baluginanti.
I pittori veneziani provavano enorme piacere nello sperimentare i nuovi colori che arrivavano al porto. Tiziano usò una gamma di pigmenti insolitamente vasta, che comprendeva l’orpimento e l’unico "vero" arancio del Rinascimento, il realgar, che a Venezia si poteva trovare dal 1490 circa. La reputazione di questa città come migliore fonte di pigmenti fini è evidente nel permesso di viaggio concesso a Filippino Lippi nel già citato contratto per la Cappella Strozzi. Cosmè Tura si recò a Venezia da Ferrara nel 1469 per procurarsi materiali per il suo lavoro alla Cappella di Belriguardo.
I Veneziani adottarono le tele come principale supporto per le loro opere dagli anni attorno al 1440 – prima che nel resto d’Italia – incentivati senza dubbio dalla presenza di un’industria cantieristica fiorente che produceva i tessuti per le vele. Questa preferenza può essere stata sollecitata dalla tendenza che aveva l’aria umida e salmastra della laguna a intaccare gli affreschi più rapidamente che non nell’Italia centrale. Rispetto alla nitidezza caratteristica delle opere su tavola dei Fiorentini, la consistenza ruvida della tela tendeva a rendere imprecisi i contorni. L’artista veneziano Tintoretto (Jacopo Robusti, 1518-94) sperimentò le possibilità offerte da questa caratteristica, abbandonando gli spessi strati di stucco che venivano in genere usati per lisciare le tele, in modo da sfruttarne la trama grossolana per ottenere effetti che nelle opere di grande formato, osservate a distanza, avessero un impatto maggiore. Tiziano utilizzò questa ruvidezza per elaborare un espediente che desse come risultato la sintesi visiva, permettendo che si intravedessero i colori sottostanti nei vuoti lasciati da una pennellata passata sulla superficie scabra della tela. Lo sforzo dell’artista non è affatto invisibile, come pretendeva con tanta enfasi Vasari: Tiziano – come i pittori cinesi e giapponesi – lasciava che fosse evidente l’energia delle sue pennellate, ed è per questo che i suoi dipinti trasmettono tanta vitalità.
Fin da quando Giovanni Bellini (1431 ca.-1516) introdusse a Venezia le tecniche della pittura a olio intorno al 1470, i pittori veneziani le usarono per creare colori arditi e luminosi... gli elementi di un linguaggio poetico visivo che parlava di dramma, passione, esasperata sensibilità. La loro era un’arte sensuale, un contrappunto ai criteri razionali di Firenze.11
Vasari racconta che tre dei grandi pittori veneziani dell’Alto Rinascimento – Giorgione (1478 ca.-1510), Tiziano (1490 ca.-1576) e Sebastiano del Piombo (1485 ca.-1547) – avevano studiato nella bottega del Bellini, dove avrebbero appreso il suo stile: creare gradazioni di colore ricche e complesse, con velature multiple. Tiziano spinge all’estremo l’uso di questa tecnica; alcune delle sue opere hanno strutture di vernice stratificata così complesse che sono quasi impossibili da decifrare. «Velature, trenta o quaranta!» si dice abbia esclamato. Si tratta certo di un’esagerazione, ma fino a un certo punto: l’analisi del manto nero del vescovo Averoldi nella sua Resurrezione (1519-22) ha rivelato nove strati distinti fra lo stucco e la vernice di finitura, che incorporavano biacca, vermiglione, nerofumo, azzurrite e una qualche varietà di lacca violetta.12