«Un Rembrandt nato in India»
Nei primi anni dell’Ottocento, le parole infuocate di John Mallord William Turner (1775-1851) penetrarono la tetra crosta della convenzione. A volte il suo uso del colore spinge a pensare che volesse fare completamente a meno del disegno e perfino suoi ammiratori come John Ruskin manifestavano qualche perplessità per questa nuova maniera luminosa di dipingere. «Dipinti di nulla e molto verosimili»: così la vedevano critici più severi.
Turner fu un membro rispettato della Royal Academy dalla fine del XVIII secolo sino alla sua morte, benché la sua goffaggine sociale non lo rendesse particolarmente amato dai contemporanei. Perfino nel 1795, il giovane pittore aveva dato qualche avvisaglia del suo programma col Pescatore in mare, opera dominata dagli effetti coloristici della luce che filtra fra nuvole temporalesche color rame e violetto. L’atmosfera domina le opere di Turner, in cui pallidi soli lottano per penetrare ogni genere di nebbie, brume, nubi e tempeste; un critico affermò che Il sole che sorge tra vapori (1807) era in potenza un titolo adatto alla maggior parte dei suoi quadri.
Queste composizioni d’atmosfera avevano bisogno di colore ricco e vibrante, non delle terre smorzate preferite da Constable; man mano che il sole e i vapori di Turner affollarono sempre più i suoi paesaggi velandoli, la sua opera sembrò «tremare sull’orlo di qualche nuova scoperta nel campo del colore», secondo un’enciclopedia del 1823. Per alcuni critici era decisamente troppo. Poiché egli continuava nei suoi tentativi di catturare la qualità soggettiva della luce solare velata usando il colore in modi sempre meno naturalistici, un giornale nel 1826 lo implorò: «Vorremmo che Turner tornasse alla natura e ne facesse l’oggetto della sua idolatria, invece del "giallo bronzo" che lo ossessiona». Quando Turner espose la sua classica marina Ulisse che deride Polifemo (1829; tav. 7.1), una sfolgorante mescolanza di rossi e gialli primari, di malva e arancio fuoco, il Morning Herald commentò: «Questo è un dipinto in cui la verità, la natura e il sentimento sono sacrificati all’effetto melodrammatico... infatti può essere preso come esempio di coloritura impazzita: vermiglione deciso, indaco deciso, e tutti i toni più sfacciati di verde, giallo e porpora si contendono la scena». Le tinte di Turner erano esotiche, orientali, come «fatte da un Rembrandt nato in India», secondo Joris-Karl Huysmans, a quel tempo importante critico d’arte.
Un colore così vivido era inconsueto e sconcertante. I vittoriani preferivano, con le parole dello storico d’arte Eric Shane, «la verosimiglianza alla pittoricità, la coloritura sdolcinata alle tonalità brillanti di Turner». In altre parole, preferivano Reynolds e Gainsborough, che non facevano nascere dubbi su ciò che si supponeva uno stesse guardando. E tuttavia Turner e gli ímpressionisti non evitavano affatto la verità, ma ne cercavano un tipo particolare: non la "verità" della convenzione accademica che era una pura idealizzazione e formalizzazione della natura, ma la verità dell’impressione che questa lascia nella mente dell’osservatore. Quanto alle «tonalità brillanti», non può sussistere dubbio sulla loro provenienza e sul motivo del disorientamento che creavano, dato che fino ai primi del Novecento nessuno aveva visto verdi, gialli e violetti come quelli che ora irraggiavano dalle opere degli innovatori.
Turner si buttava sui nuovi pigmenti quasi alla velocità con cui i chimici li sfornavano. Blu cobalto, verde smeraldo, verde di Guignet, arancio vermiglione, cromato di bario, giallo, arancio e scarlatto cromo, come pure nuove lacche gialle e rosse... per ogni nuovo materiale introdotto, nel giro di pochi anni egli trovò un’applicazione. Questo modo di comportarsi faceva certamente rischiare il disastro: un incisore dell’epoca, J. Burnet, osservò che Turner osava adoperare questi nuovi pigmenti, al contrario di altri artisti. Una sfortunata conseguenza è che entro la fine del XIX secolo parecchie opere di Turner erano già in cattivo stato a causa della scarsa stabilità di alcuni dei nuovi pigmenti.
Si può avere un’idea dell’avidità con cui Turner si impadroniva dei nuovi pigmenti sintetici da un aneddoto sul suo comportamento abituale alla Royal Academy nei giorni in cui i membri che vi appartenevano portavano i dipinti da appendere per la verniciatura: erano infatti loro concessi alcuni giorni per i tocchi finali, prima che venisse applicato lo strato protettivo. Verso il 1830 Turner prese l’abitudine di portare tele con composizioni monotone e insignificanti; una volta che erano sistemate vicino a quelle dei suoi rivali (perché tali li considerava), egli cominciava in situ la maggior parte del vero lavoro: «Turner andava dall’uno all’altro di essi nei giorni di verniciatura, ammucchiandovi... tutti i pigmenti più vivaci su cui, potesse metter le mani, cromi, verde smeraldo, vermiglione eccetera, sinché fiammeggiavano letteralmente di luce e colore... gli artisti temevano che i loro quadri venissero appesi accanto ai suoi, ritenendo ciò una sventura come se venissero collocati vicino a una finestra aperta».16
Davvero un’esplicita confessione da parte dei contemporanei di Turner: ammettere infine che i loro stili pittorici più conservatori non riuscivano nemmeno vagamente a catturare la luce del giorno!
Non era unicamente per mezzo dei nuovi pigmenti che Turner otteneva questi effetti abbaglianti: sapeva anche far buon uso del contrasto per esaltare la brillantezza, come Constable scoprì a proprie spese. Ci fu un’occasione in cui un tocco di minio aggiunto all’ultimo momento risultò ancora più audace perché applicato a una marina peraltro grigiastra e anonima, vincendo in splendore il vermiglione e la lacca rossa del vicino quadro di Constable, il quale commentò amaramente: «È stato qui e ha sparato il suo colpo».