Il prezzo del colore
Dopo che si era assicurato l’incarico da un ricco mecenate, al pittore rinascimentale non mancava la possibilità di scegliere fra vari materiali. La natura della commissione indicava se si trattava di un affresco o di una tavola, oppure, sempre più spesso nel XVI secolo, di una tela mesticata (La nascita di Venere, 1485 ca., di Sandro Botticelli, è una delle prime opere su tela di grandi dimensioni). Ma quali pigmenti scegliere per i rossi, gli azzurri cielo, le foglie e gli incarnati?
Il committente aveva parecchio da dire al riguardo. Nel 1434 il pittore fiammingo Saladijn de Stoevere ricevette istruzioni perché la Vergine della pala d’altare per la chiesa francescana di Gand avesse un manto d’oro, bordato di «azzurro fino» (oltremare o azzurrite), e rifinito con sinopia (lacca cremisi). L’azzurrite era specificata nel contratto tra Nicaise Barat di Tournai e la chiesa di San Pietro ad Antoing nel 1446. I committenti sapevano il fatto loro: lasciati a se stessi, gli artisti sarebbero stati inclini a far economia, usando smaltino o indaco invece degli azzurri più costosi. L’ultima cena (1464-68) di Bouts non contiene oltremare ma solo azzurrite, forse perché nel contratto non c’erano clausole riguardanti i materiali. «Quale tirchieria non sarebbe stata perdonata», dice Alexandre Théroux a proposito dell’uso dell’oltremare nel Rinascimento, «in lavori dove potesse essere evitato?»
A volte il committente scendeva a questi compromessi per contenere i costi. Allo scultore Ottmaer Van Ommen fu detto che la sua opera per la chiesa di San Martin a Ypres, nel 1593, poteva essere dipinta sia a smaltino sia con un tipo più economico di azzurro di rame. In questi casi il cliente pregava l’artista di usare la sua abilità per far sì che un pigmento economico sembrasse di qualità migliore.
Le corporazioni facevano rispettare questi standard qualitativi come potevano; i loro regolamenti proibivano di sostituire materiali pregiati con altri più scadenti: per esempio, gli statuti del 1315-16 vietavano ai pittori fiorentini di usare l’azzurrite in luogo dell’oltremare e le regole senesi del 1355 imponevano di non sostituire il vermiglione con terra rossa o minio. In qualche caso, però, le gilde si trovavano a dover appoggiare la causa dei propri membri di fronte a committenti tirchi. I pittori erano anche alla mercé dell’inflazione: attorno al 1497 Filippino Lippi fu costretto a intentare un’azione legale contro gli eredi di Filippo Strozzi di Firenze, che l’aveva incaricato di decorare la cappella della chiesa di Santa Maria Novella, quando l’artista si trovò senza denaro a causa dell’aúmento dei prezzi dei pigmenti verificatosi mentre il lavoro era in corso.
Nel XV secolo e agli inizi del XVI le buone lacche rosse erano costose, poiché la fabbricazione era ancora una novità e richiedeva abilità particolari; quindi non era insolito che questi colori fossero specificati nei contratti come quello di Saladijn. Che le lacche avessero spodestato il vermiglione alchemico come rosso più principesco è evidente dalla pratica comune nell’arte nordeuropea di usare quest’ultimo come semplice base per la lacca.
I committenti non si curavano granché dei gialli, dei verdi o dei neri, che erano tutti relativamente economici. E così gli artisti tendevano a usare il giallo di piombo/stagno invece del più attraente ma più costoso orpimento. Lucas Cranach è l’unico artista tedesco di quest’epoca noto per aver usato quest’ultimo: si può supporre che ciò fosse in relazione col fatto che era proprietario di una farmacia e aveva quindi facile accesso ai materiali più esotici.
Uno dei più chiari indicatori del declino del ruolo medievale dei pigmenti come esibizione di opulenza è l’uso dell’oro. La doratura è chiaramente non naturalistica: la foglia d’oro stesa su una superficie piatta non assomiglia affatto a un oggetto d’oro tridimensionale. L’Alberti avverte che il suo aspetto cambia a seconda di come riflette la luce: «... si puo uedere anchora, posto l’oro in una tavola piana, come parecchie superficie, lequali bisognaua rappresentare chiare, et lucide, paiano oscure a chi le guarda. Alcune altre, lequali perauentura deueuano essere piu ombrose si mostrino più ripiene di lumi».9
Egli esorta quindi il pittore a rendere le superfici dorate, come i broccati, usando pigmenti e abilità, non il metallo... «essendo maggiore ne i colori la marauiglia, et la lode de l’artefice».
È affascinante seguire il declino della doratura durante il XV secolo. Un curioso esempio di transizione tra i fondi oro medievali e il successivo uso più naturalistico dell’oro è costituito dalla Conversione di sant’Uberto (seconda metà del XV secolo) della bottega del Maestro della Vita della Vergine di Colonia. Qui si trova un "cielo" dorato, giustapposto a un tentativo di paesaggio naturalistico (benché il pittore non condivida affatto l’attenzione minuziosa di Leonardo per la natura e sembri aver appreso la prospettiva aerea – l’azzurramento delle colline in lontananza – da un manuale). Nella Madonna con quattro santi (1446) del veneziano Antonio Vivarini in collaborazione con Giovanni d’Alemagna, per l’aureola della Madonna e in parte per il broccato dei manti viene usato l’oro, ma il trono e le pareti tappezzate sono resi con pigmenti gialli, in modo così abile che l’occhio ne è quasi ingannato. La maestria dell’artista sta già prendendo il sopravvento sul valore dei materiali. Nell’Adorazione dei Magi (1510-15) di Vincenzo Foppa, alle corone dei re è ancora attribuita la doratura esaltata dalla velatura rossa, ma il resto segue lo stile rinascimentale. E l’Annunciazione con sant’Emidio (1486; tav. 5.6) di Carlo Crivelli offre una prospettiva ineccepibile, quasi pedante, e un uso ricco e variato del colore... tuttavia il fascio di luce che dal cielo colpisce la fronte della Vergine è in foglia d’oro; qui il carattere non naturalistico della doratura serve a ricordare che il raggio celeste è ultraterreno. È come il colpo di coda del Medioevo, prima che l’esperienza umana sostituisse l’autorità divina come guida e mentore dell’artista.
Man mano che i materiali perdevano la loro connotazione simbolica, le scelte coloristiche del pittore divenivano puramente finanziarie. I listini prezzi delle spezierie – i principali fornitori di pigmenti agli inizi del XVI secolo – forniscono una valida indicazione del perché alcuni colori fossero preferiti ad altri. Nel 1471, a Firenze, Neri di Bicci pagò della buona azzurrite due volte e mezzo più di un buon verde («verde-azurro», probabilmente malachite), una buona lacca rossa e una fine lacca gialla («arzicha»). Il giallolino (da lui chiamato «giallo tedescho», probabilmente giallo di piombo/stagno) costava dieci volte meno dell’azzurrite, e la biacca addirittura cento volte meno; l’oltremare, a sua volta, era dieci volte più caro dell’azzurrite. Le differenze di prezzo erano quindi enormemente maggiori di quelle che un pittore troverebbe oggi... senza dubbio con un’incidenza proporzionale sulla scelta dei colori.
E l’artista doveva essere pronto a viaggiare per reperire i materiali. Benché molti grossi borghi avessero un fornitore locale, spesso i pigmenti più fini si potevano trovare solo nelle più importanti città commerciali. Firenze attirava artisti da ogni dove: Guillaume de Marcillat, un pittore francese, ordinava da questa città anche umile smaltino e terre per i suoi affreschi ad Arezzo; dal contratto di Lippi per la Cappella Strozzi si può intuire che persino Firenze non sempre era in grado di soddisfare le sue richieste: accenna infatti alla possibilità di recarsi a Venezia, presumibilmente per procurarsi pigmenti. I pittori tedeschi e francesi andavano a Colonia, quelli fiamminghi accorrevano ad Anversa e Bruges.
Questi viaggi non erano imprese da poco, come suggerisce la necessità di specificarli in un contratto; quindi il pittore doveva fare calcoli accurati: le eccedenze potevano essere rivendute a colleghi, ma una tavolozza vuota costituiva un problema ben diverso. Ed era anche alla mercé della geografia, perché la disponibilità e la qualità dei diversi colori variava da regione a regione.
Non bisogna quindi meravigliarsi che i pittori avessero tanto a cuore i propri materiali e mettessero tanta cura nella loro preparazione e applicazione. Benché nella bottega del maestro entrambe queste attività fossero spesso svolte da apprendisti, venivano comunque fatti rispettare degli standard molto severi. Come qualsiasi altro maestro del suo tempo, Dürer non metteva tutte le pennellate su ognuno dei lavori a lui attribuiti, ma quando lo faceva, i colori della sua tavolozza erano stati macinati dalle sue stesse mani e mescolati con oli che aveva purificato di persona; per proteggere il lavoro finito si fidava solo della vernice che preparava lui stesso, temendo (probabilmente a ragione) che quelle confezionate da altri si alterassero: «Dopo uno, due o tre anni, intendo rifinirli con una nuova vernice che non è nota agli altri, così da aggiungere un centinaio d’anni alla loro vita. Non permetterò a nessun altro di verniciarli, perché tutte le altre vernici sono gialle, e rovinerebbero le mie tavole».10
La cura e l’attenzione che Dürer prodigava ai propri dipinti è evidente in una lettera che scrisse a Jakob Heller nel 1508, in cui descrive le sue fatiche nella realizzazione di una pala d’altare: «Ho in mente di dare quattro, cinque o sei mani di fondo», diceva (e questa è soltanto la preparazione). Un anno dopo egli aggiunge: «Ho usato i migliori colori che sono riuscito a trovare, specialmente del buon oltremare... e poiché ne avevo preparato abbastanza, ho aggiunto altre due mani alla fine, così che durasse più a lungo». Si può notare che questi artisti – per quanto era loro consentito – dipingevano per l’eternità.