Verso la luce
Nessuna rivoluzione inizia senza colpi d’avvertimento, benché di frequente passino inosservati. Gli impressionisti non furono i primi pittori francesi a sfidare il conservatorismo accademico: Eugène Delacroix (1798-1863) gettò il guanto di sfida verso il 1830-40, con ampie pennellate e audace cromatismo (tav. 8.1), che si dimostrarono eccessivi per il Salon. Ma nel 1855, quando il giovane Camille Pissarro (1830-1903) giunse a Parigi per vedere la grande esposizione mondiale, Delacroix era diventato quasi un membro dell’establishment, che peraltro nessuno personificava meglio dello strenuo rivale di Delacroix: la figura rigida, intollerante e altezzosa di Jean-Auguste-Dominique Ingres (1780-1867).
Un dualismo semplicistico etichetta Ingres come la controparte classica del romantico Delacroix: un pittore conservatore che sosteneva la superiorità del disegno sul colore nell’annosa querelle e rappresentava la ragione a fronte della passione incarnata da Delacroix. La verità è assai più complessa. Certo, Ingres restava abbarbicato al passato («ignora completamente tutti i poeti dei tempi recenti», disse di lui Théodore Chassériau, un suo ex allievo passato a Delacroix), ma era un artista senza dubbio molto eclettico, che poteva attingere a temi e colori orientali, come a soggetti e stili del XVII secolo, o agli argomenti storici e mitologici caratteristici dell’arte greca e romana. Nelle sue mani, anche scene trite e ritrite potevano trasformarsi in opere di genio, mentre in quelle di artisti minori non davano luogo ad altro se non a sterile emulazione.
Forse quello più calzante è il giudizio di Baudelaire: Ingres era dispotico, «un uomo pieno d’ostinazione, dotato di straordinarie qualità, ma deciso a negare l’utilità di quelle che non possedeva». Ossessionato dal segno, Ingres condannava le opere – come quelle di Delacroix – in cui gli oggetti non erano disegnati con precisione; ribadiva che un «nobile contorno» poteva ripagare di altre manchevolezze... del colore, per esempio. I suoi quadri costituiscono un esempio perfetto della consistenza liscia, senza pennellate visibili, che si aspettavano gli accademici francesi.
E tuttavia avrebbe avuto molto in comune con Delacroix, se solo i due si fossero decisi a riconoscerlo: erano entrambi coloristi eccelsi, anche se Ingres lo considerava un fatto di scarsa importanza; il suo Odalisca con la schiava (1839-40) si fregia di ricchi rossi, verdi e arancioni, e Delacroix, benché sotto molti aspetti fosse un progressista, condivideva il parere di Ingres secondo il quale per il pittore esisteva una gerarchia di soggetti: le opere basate sui grandiosi temi classici della storia, del mito e della religione erano superiori ai paesaggi, alle nature morte e alle scene di vita quotidiana (definiti con disprezzo "pittura di genere"). Nei loro "grandi" lavori entrambi gli artisti non ritraevano persone reali ma figure allegoriche idealizzate; probabilmente Ingres si infurierebbe parecchio nello scoprire che i suoi quadri "classici" oggi attirano ben poca attenzione, mentre i suoi ritratti, spesso dipinti solo per motivi commerciali, sono (giustamente) considerati tra i più spettacolari studi psicologici dell’epoca.
Ma più di qualunque altra cosa era il colore a dividere Delacroix e Ingres. Non si può fare a meno di notare quanto ne godesse Delacroix; sentiva che i suoi contemporanei ignoravano del tutto come usare il colore: «Gli elementi della teoria del colore non sono stati analizzati né insegnati nelle nostre scuole d’arte, perché in Francia è considerato superfluo studiarne le leggi, secondo il detto "Coloristi si nasce, disegnatori si diventa" ».1 Egli criticava la scuola accademica di Jacques-Louis David (1748-1825), in cui Ingres si era formato, per i suoi monotoni toni spenti e il suo rifuggire dai pigmenti ricchi, in cui scorgeva un atteggiamento quasi classico verso la formazione del colore. Sostenne che questa scuola immaginava «di poter produrre i toni ottenuti da Rubens con colori schietti e vividi, come verde brillante, oltremare eccetera, col bianco e il nero usati per creare il blu, il giallo e il nero per il verde, l’ocra rossa e nera per il violetto e così via. Faceva anche uso di terre, come terra d’ombra, terra di Cassel, ocre eccetera... Se il dipinto fosse sistemato vicino a un’opera riccamente decorata come un Tiziano o un Rubens, apparirebbe per quello che è: terroso, monotono e senza vita».2 Da parte sua, Delacroix lavorò utilizzando elaborate tavolozze che comprendevano fino a ventitré pigmenti, cioè quasi tutti quelli disponibili all’epoca; non considerava il colore una proprietà intrinseca dell’oggetto, ma «essenzialmente un gioco di riflessi». Poiché Ingres non teneva conto di questi riflessi – l’effetto della luce che si riverbera da un oggetto su ciò che lo circonda e viceversa – Delacroix lamentava che l’opera di Ingres raffigurasse cose «rozze, isolate, fredde». Si racconta che Delacroix, cercando di dare risalto a un tessuto giallo, decidesse di andare al Louvre per vedere come si sarebbe comportato Rubens; a quell’epoca le vetture pubbliche a Parigi erano dipinte di giallo canarino ed egli notò che alla luce del sole quella che lo attendeva gettava un’ombra violetta: era quanto voleva sapere. Pagò il vetturino e tornò al lavoro.
È qui dunque che Delacroix anticipa l’Impressionismo: egli desiderava catturare i giochi della luce. Ma non c’era da sbagliarsi sull’atteggiamento ufficiale nel 1855: all’Esposizione Mondiale i riconoscimenti andarono a Ingres e ai suoi emuli, che ottennero il favore del pubblico dei visitatori. A Delacroix fu varie volte negata l’appartenenza all’Accademia, di cui Ingres era un membro influente; la loro inimicizia divenne leggendaria, fornendo materiale alle caricature della stampa.
Delacroix più tardi sarebbe stato idolatrato dagli impressionisti, ma un’altra innegabile influenza fu quella esercitata da Turner, che sul finire della sua vita era giunto ad abbandonare molti degli ideali classici e a ricercare la propria identità artistica in un regno di luce. Vedere le opere di Turner progredire – come accade in un’unica sala della Tate Gallery – dal Neoclassicismo dei suoi primi paesaggi al vortice onirico di primari brillanti dei suoi ultimi quadri, è come seguire il sentiero dell’arte contemporanea prefigurato nell’opera di un singolo uomo. Pissarro e Monet verso il 1870 a Londra videro alcuni di questi dipinti, che lasciarono il segno. La gouache di Turner raffigurante la cattedrale di Rouen (1831 ca.) è senza dubbio un’antesignana dei numerosi studi di Monet del grandioso monumento, dipinti nel 1892-94; Monet più tardi fu tuttavia reticente nel riconoscere il suo apprezzamento del pittore inglese, ammettendo nel 1918 che «negli anni passati, Turner mi è piaciuto molto»... solo per aggiungere: «ma ora mi piace molto meno».