En plein air
Nel decennio 1860-70, il fisico e fisiologo tedesco Hermann von Helmholtz dichiarò che era vano per l’artista tentare di ricreare gli effetti di luce e colore osservati nel mondo reale, perché i pigmenti disponibili erano troppo limitati: c’era bisogno di una scala di luminosità diversa, di un abbassamento di tonalità che introducesse sfumature con un vago accenno di marrone. Ciò significava che, nonostante la loro pretesa di naturalismo, gli artisti tradizionali per rappresentare i giochi di luce si limitavano ad applicare convenzioni che davano come risultato soltanto una somiglianza stereotipata con l’immagine che si presentava ai loro occhi. Di conseguenza, sosteneva Helmholtz, «non si devono imitare i colori degli oggetti, ma l’impressione che hanno dato o darebbero, in modo da produrre un concetto il più distinto e vivido possibile dei medesimi». 3
E questo – una descrizione valida quanto un’altra di ciò che gli impressionisti stavano tentando di realizzare – è qualcosa che non si può ottenere nell’atelier ricostruendo una scena da schizzi, ricordi imprecisi e forme idealizzate. Piuttosto, richiede che il pittore lavori immerso nel suo soggetto, trasferendo le proprie impressioni visive direttamente sulla tela; egli (con tante scuse a Berthe Morisot e Mary Cassatt) deve uscire di più.
Fra i miti che hanno finito per circondare gli impressionisti vi è quello che fossero i primi pittori a lavorare all’aperto. Naturalmente non è così. Turner, tanto per citarne uno, aveva attrezzato una barca in modo da poter dipingere en plein air, come fu poi definito questo metodo. Ed è difficile immaginare che William Holman Hunt possa aver dedotto meditando in un atelier come catturare tanto brillantemente le ombre prismatiche del sole al tramonto, nel suo Le nostre coste inglesi (poi Pecore smarrite, 1852; tav. 8.2): i blu, i rossi e i gialli del vello delle pecore, e il singolare violetto dell’erba si combinano per creare una luminosità naturale convincente come mai prima d’allora... abbastanza da persuadere John Ruskin che qualunque cosa avesse sostenuto Helmholtz, Hunt aveva trovato un modo di tradurre la luce del sole in pigmento: «Ci ha mostrato per la prima volta nella storia dell’arte gli equilibri assolutamente fedeli di colore e ombra, tramite i quali la vera luce del sole può essere trasposta in una chiave in cui le armonie possibili nei pigmenti materiali dovrebbero produrre sulla mente la medesima impressione suscitata dalla luce stessa».4
È stupefacente che sia Ruskin sia Helmholtz usino il termine "impressione", a ricordare che lo stile degli impressionisti non era dettato unicamente dalle loro intenzioni.
Ma l’immagine dell’impressionista immerso nella natura col cavalletto portatile e il parasole è dura a morire, incoraggiata dalle loro stesse raffigurazioni di questa attività (sia Renoir sia John Singer Sargent dipinsero Monet che lavorava all’aperto) e dall’avallo da loro stessi dato a questo mito. Nel 1888 Monet dichiarò: «Non ho mai avuto un atelier, e non capisco come qualcuno possa rinchiudersi in una stanza», benché le sue opere testimonino di ritocchi apportati più tardi nel suo studio.
Per i conservatori dell’Accademia francese, la pittura all’aperto era considerata una pratica adatta solo a preparare schizzi da cui si sarebbe ricostruita l’opera al chiuso; l’immediatezza e il naturalismo del bozzetto sarebbero stati scrupolosamente cancellati nell’elaborazione. La tradizionale tecnica del chiaroscuro degli accademici esigeva che i toni pallidi di una scena illuminata dal sole fossero scuriti nei loro "paesaggi storici", per rendere luce e ombra in maniera molto stilizzata. Verso la metà del XIX secolo questa convenzione fu sfidata da pittori "realisti" come Camille Corot (1796-1875) e Gustave Courbet (1819-77); piuttosto che scurire i toni delle sue scene all’aperto, Corot aggiungeva bianco ai colori per far risaltare la luminosità della scena e registrarne fedelmente la sensazione visiva. «Non perdete mai la prima impressione che vi ha colpito», consigliava in quello che avrebbe benissimo potuto essere uno slogan per i giovani radicali, come il suo allievo Pissarro.
Per gli impressionisti era essenziale trasmettere alla tela queste impressioni di luce e di ombra esterne; ciò a volte causava loro enormi problemi: Monet si dedicava contemporaneamente a parecchi lavori, sfidando pioggia, vento, neve e maree, per cogliere i preziosi momenti in cui di volta in volta l’illuminazione naturale tornava a essere quella che lui desiderava. La Morisot si lamentava delle orde di giovani che si raccoglievano attorno a lei quando sistemava il cavalletto all’aperto.
Solo questa osservazione ravvicinata dell’illuminazione naturale poteva aver rivelato agli impressionisti le sottigliezze dei colori che baluginano attraverso le superfici e si celano nelle tenebre. Scrivendo in Provenza, Paul Cézanne disse: «La luce del sole qui è così intensa che mi sembra che le silhouette degli oggetti non siano solo bianche e nere, ma anche azzurre, rosse, marroni e violette». Per questi pittori la natura è animata da una sarabanda di tonalità stupende che era quasi impossibile imitare mescolando i soliti materiali tradizionali: avevano bisogno di un arcobaleno più vasto. Il poeta francese Jules Laforgue commentava nel 1883 che «in un paesaggio inondato di luce... l’impressionista vede la luce bagnare ogni cosa non con un morto biancore, ma piuttosto con un migliaio di palpitanti colori contrastanti, dalla ricca scomposizione prismatica... l’impressionista osserva e riproduce la natura com’è: cioè interamente nel vibrare dei suoi colori».5
Ma che cosa spinse questi pittori a cercar di catturare il «vibrare dei colori»? Senza dubbio l’intuizione e l’empirismo vi giocò un ruolo notevole; ma gli impressionisti si ispirarono in buona parte a princìpi scientifici, almeno nella misura in cui riuscivano ad afferrarli e tradurli in termini pittorici. Di grandissima importanza fu il concetto di contrasto tra colori complementari, elaborato agli inizi del XIX secolo dal chimico Michel-Eugène Chévreul.