Azzurri rinascimentali
Questo desiderio era sicuramente acuto per i nuovi azzurri. Alla fine del XV secolo l’oltremare era ancora molto caro e l’azzurrite non si poteva dire a buon mercato. Il mecenate o il cliente che volesse un azzurro brillante senza potersi permettere nessuno di questi due colori aveva un’altra scelta: un "azzurro rame" sintetico, essenzialmente un’imitazione artificiale dell’azzurrite (carbonato basico di rame). Riconoscere questi pigmenti, già di difficile comprensione in termini di composizione chimica, è reso ancor più complicato da un ostacolo lessicale: i produttori che ottenevano sostanze molto simili con mezzi differenti potevano attribuire loro nomi diversi. E man mano che i pigmenti smettevano di essere legati alla loro sostanza d’origine, divenendo invece etichette generiche o perfino nomi astratti di colori, lo stesso termine poteva finire con l’essere attribuito a sostanze differenti. Non deve quindi meravigliare troppo che gli artisti non sempre sapessero che cosa stavano usando.
Per gli artisti inglesi del XVII secolo, per esempio, l’azzurrite naturale poteva andare sotto il nome di blue bice (blu turchino) o semplicemente bice. Nel XIV secolo, bys era solo un aggettivo che significava "scuro"; azure bys indicava un azzurro intenso; ma già nel XV secolo era il blu per antonomasia, il che significa che veniva attribuito al pigmento azzurro più comune: l’azzurrite. Nel XVII secolo, non sembra avesse un significato diverso, ma già in quello successivo lo si trova riferito a una sostanza senza particolari connotazioni cromatiche: bice era il nome generico di un pigmento a base di rame (generalmente un carbonato), e poteva definire sia un materiale verde sia uno blu. Di lì a poco, la parola finì col designare un blu di rame artificiale, ed è in questa accezione che lo si incontra in genere nella moderna letteratura.
Rosamond Harley, nella sua magistrale rassegna dei pigmenti in pittura dal 1600 al 1835, opera una netta distinzione tra il blue bice e il colore noto come blue verditer, che è indubbiamente un pigmento sintetico di rame. Quest’ultimo però è assai ambiguo, poiché non è difficile farne risalire l’origine al francese antico vert de terre, una terra verde. Da questo si deve dedurre che il primo verdeterra sintetizzato fosse in effetti un verde, e che in seguito ne sia comparsa una variante azzurra.
Sia il verdeterra verde sia quello azzurro hanno la stessa composizione chimica, che è anche quella dell’azzurrite naturale: ioni rame, carbonato e idrossido. Ma perfino piccole variazioni nel rapporto tra ioni carbonato e ioni idrossido alterano il colore fornito dagli ioni di rame: con meno carbonato la sostanza è verdognola. Nell’azzurrite vi sono idrossido e carbonato, nel verdeterra verde ce n’è il doppio, proprio come nel minerale di rame noto come malachite.
I pigmenti artificiali di rame di questa categoria erano detti a volte "verdeterra del raffinatore", il che rispecchia la loro origine dalla raffinazione dell’argento. L’argento nativo è spesso in lega col rame; per eliminare quest’ultimo, lo si trasforma in nitrato di rame, solubile in acqua. Il medico svizzero del XVII secolo Theodore Turquet de Mayerne riporta che, un centinaio d’anni prima, i minatori che estraevano l’argento avevano gettato una soluzione di nitrati di rame sul gesso (carbonato di calcio), facendolo diventare verde all’istante.
Tuttavia questo procedimento scoperto fortuitamente era anche instabile e difficile da controllare: a volte dava luogo al pigmento verde, altre a quello azzurro. Quando Robert Boyle studiò la produzione del verdeterra azzurro nel XVII secolo, commentò questa inattendibilità. Nel 1662 il suo contemporaneo Christopher Merret descrive la situazione sostenendo che è uno strano e grande mistero vedere che una piccola e indiscernibile sottigliezza... dà l’uno e l’altro colore, come scoprono ogni giorno i raffinatori nel fare i loro verdeterra, che a volte con gli stessi materiali e le stesse quantità di essi per la loro aqua-fortis [acido nitrico] e le stesse lastre di rame e gesso ottengono un verdeterra azzurro molto bello, oppure un verde sporco o chiaro. Del che non sanno dare una ragione, né riescono a scoprire una regola certa perché il loro verdeterra sia sempre di un bell’azzurro, con loro grande svantaggio, poiché questo è di molto più pregiato del verde.7
Enigmi di questo genere devono aver costituito una sfida e un incentivo irresistibili per il chimico, anche se solo nel tardo Settecento un francese di nome Pelletier fu in grado di produrre i due colori in modo riproducibile: la colorazione azzurra o verde del prodotto dipende dalla temperatura a cui viene fabbricato e sembra quindi che i capricci del tempo possano spiegare le perplessità dei raffinatori.
Entro il XVII secolo, il verdeterra azzurro non era più un sottoprodotto, ma un affare industriale a pieno titolo. In Francia era noto come cendres bleu (ceneri blu), rischiando di confonderlo col pigmento di scarsa qualità chiamato "ceneri oltremare". A peggiorare le cose, alcuni fabbricanti inglesi del XVIII secolo si preoccuparono di anglicizzare questo termine, vendendo il prodotto come "Sanders blue". Per un certo tempo fu venduto (o almeno acquistato) con la convinzione che si trattasse di un pigmento diverso dal verdeterra azzurro o dal blue bice, come anche allora poteva esser chiamato. Fu con un certo sgomento che il chimico Robert Dossie, autore del fondamentale trattato The Handmaid to the Arts (L’ancella delle arti, 1758), scoprì che "Sanders blue" e verdeterra azzurro erano la stessa cosa. Il procedimento di fabbricazione del verdeterra può essere alla radice di ricette tardomedievali per ottenere una misteriosa sostanza azzurra, a quanto pare dall’argento. Prima che venisse perfezionata la tecnica per produrre l’oltremare, questo "azzurro d’argento" era considerato il migliore di tutti i pigmenti di questo colore. Le ricette variano, ma tutte comprendono l’esposizione dell’argento ai vapori di aceto o di ammoniaca. Si può supporre che il metallo di rame incorporato all’argento reagisca formando sali azzurri di rame; ma il mistero consiste nella raccomandazione comune che l’argento deve essere molto puro, senza tracce di rame (e gli argentieri medievali erano in grado di ottenerlo). Il fatto che l’origine delle ricette sia spesso fatta risalire ai Saraceni ne rivela le fonti alchimistiche, quindi alla base può esserci una confusione tra metalli, il che giustifica l’ipotesi che uno possa trasformarsi nell’altro.
Benché Cennini non faccia riferimento a pigmenti artificiali azzurri di rame, sembra che siano stati abbondantemente usati almeno a partire dal XVI secolo, dato che il loro costo piuttosto basso li raccomandava ai decoratori d’interni. Entro il secolo successivo il verdeterra azzurro era un prodotto standard, sia come tempera che come vernice a olio. Lo si può trovare sulle pareti di numerose dimore nobili inglesi, come il grande salone di Bowood House nel Wiltshire, e fu uno dei primi pigmenti "commerciali".
Dossie aveva più ragioni di quanto lui stesso credesse nel denunciare la nomenclatura approssimativa dei colori più diffusi. Acquistando blue bice, avrebbe potuto scoprire che non era un pigmento a base di rame, ma un prodotto del tutto diverso: la polvere di vetro blu, contenente cobalto, detta "smaltino".
Quest’ultimo ha origini oscure. La tradizione ne attribuisce l’invenzione a un vetraio boemo, Christoph Schürer, tra il 1540 e il 1560, ma il fatto che esso compaia nella Sepoltura (1455 ca.) di Dirck Bouts ne è una smentita, assegnandola invece ai vetrai italiani del XIV secolo. (L’uso che dello smaltino fa Giovanni Bellini nel tardo XV secolo è stato fatto risalire al suo interesse per la manifattura del vetro.) Un’altra possibilità è che non fosse affatto un’invenzione europea, ma provenisse dal Vicino Oriente: i materiali di cobalto dopotutto erano usati dagli antichi Egizi per colorare il vetro, e dai Persiani per produrre smalti e coloranti blu.
Il cobalto si trova in natura in parecchi minerali, in particolare nella smaltite, un composto di cobalto e arseniuri di nichel; esposta all’aria, forma un cristallo fibroso di un azzurro brillante, noto ai minatori come "fiore di cobalto": è un fiore pericoloso, perché i composti di arsenico presenti nella polvere del minerale sono tossici e corrosivi. Il minerale di cobalto abbonda in Sassonia e i minatori che qui estraevano l’argento vengono ammoniti dal trattato De re metallica (Dei metalli, 1556) di Agricola a guardarsi da «un certo tipo di cadmia [minerale di cobalto /zinco] che erode i piedi dei lavoratori se sono bagnati, e anche le mani, e ne danneggia i polmoni e gli occhi». Nella traduzione tedesca del trattato di Agricola questa sostanza diabolica è chiamata Kobelt, nome dato agli gnomi e ai folletti che si credeva infestassero le miniere e tormentassero i minatori. Nel 1562 il dotto Johann Mathesius affermava: «che il diavolo e le sue schiere infernali abbiano dato o no nome al cobelt, esso è comunque un metallo velenoso e nocivo, anche se contiene argento».8
Intorno alla metà del XVI secolo lo smaltino era ormai un pigmento largamente usato, che veniva prodotto su larga scala, specialmente in Olanda. Il metodo era probabilmente molto simile a quello descritto nel XVII secolo da un tale J. Kunckel, direttore di una vetreria. Il minerale viene arrostito — dice — espellendone così i venefici vapori di arsenico. Ciò che resta è ossido di cobalto, che viene in seguito polverizzato e riscaldato con quarzo (sabbia) e potassa fino a ottenere vetro fuso che, immediatamente immerso nell’acqua, si spezza; i frammenti possono essere quindi macinati per farne il pigmento. Perché conservi il proprio colore azzurro cupo, lo smaltino non deve essere comunque ridotto in polvere troppo sottile; tuttavia la consistenza granulosa ne rende difficile l’uso in pittura.
La miglior qualità di smaltino aveva un tocco di porpora, che lo rendeva adatto a sostituire l’oltremare. Ma questa sua caratteristica diminuisce tristemente quando viene mescolato a un olio; lo smaltino rende meglio negli acquerelli o negli affreschi: appare per esempio in un affresco del Fondaco de’ Todeschi a Venezia (1598 ca.), su cui lavorarono sia Tiziano sia Giorgione. Ma i pittori veneziani non esitavano a usarlo anche negli oli: Tiziano lo utilizza nella Madonna con bambino in un panorama serotino (1560 ca.), e lo si trova in molte opere del Tintoretto, compresa la Crocifissione (1560) e i dipinti dei Fasti gonzagheschi (1579 ca.). Usarono questo pigmento Paolo Veronese ed El Greco, come pure Van Dyck (Donna con bambino, 1620-21), Rubens (Discesa dalla Croce, 1611-14) e Rembrandt (Il banchetto di Baldassarre, 1636-38). Lo smaltino è comune in opere del XVIII secolo e veniva ancora prodotto nel decennio 1950-60.