Le tecnologie del colore

Il chimico antico aveva poco più di un unico agente di trasformazione: il fuoco. Il calore può stimolare una reazione, ed è quanto basta per fabbricare antimoniato di piombo giallo o fritta egizia: eliminerà i gas, trasformando carbonati come gesso e malachite in ossidi, espellendone biossido di carbonio (anidride carbonica).

Certamente il calore è un mezzo di trasformazione abbastanza rudimentale, ma le civiltà della valle del Nilo lo portarono a uno straordinario grado di raffinatezza, e la grande varietà dei modelli di fornaci babilonesi e assire giunte sino a noi è una testimonianza delle notevoli sperimentazioni riguardo le condizioni di cottura.

Tuttavia è chiaro che gli esperti tecnici di Egitto, Grecia e Roma padroneggiavano anche sofisticate conoscenze di chimica. Facevano un uso rudimentale di acidi e alcali... per quanto, finché gli alchimisti arabi non scoprirono gli acidi "minerali" forti (solforico e nitrico) agli inizi del Medioevo, il trattamento a base di acidi non potesse prevedere nulla di più potente dell’aceto. Questo era sufficiente tuttavia a corrodere il piombo e il rame, ottenendo rispettivamente biacca e verderame. I processi chimici di fermentazione (l’uso di lievito per ottenere alcool dallo zucchero), sublimazione (lo scaldare un solido facendolo passare allo stato gassoso), precipitazione (l’estrazione di un solido da una soluzione) e filtrazione (il catturare piccole particelle solide da una sospensione) erano pratiche comuni nel mondo antico.

Ma la tecnologia chimica esistente nell’antichità per produrre colori non fu sviluppata specificamente per questo scopo: la ricerca degli ingredienti e l’abilità necessarie furono incentivate da pratiche più prosaiche, come la fabbricazione del vetro, la vetrificazione della ceramica e la produzione del sapone. In altre parole, la creazione di pigmenti era la branca secondaria di un’industria chimica vasta e fiorente, che trasformava materie prime in sostanze necessarie alla vita quotidiana. Vedremo nei capitoli successivi che questa situazione si è perpetuata attraverso i secoli: la produzione di pigmenti è stata economicamente attuabile nonché tecnologicamente possibile perché inserita in un contesto molto più ampio di scienza pratica. L’arte parla allo spirito ma si alimenta del concreto.

La manifattura sia del vetro sia del sapone richiede alcali; nel mondo antico questi erano essenzialmente "soda" (carbonato di sodio) e "potassa" (per lo più carbonato di potassio). Il carbonato di sodio si trova in natura sotto forma di un minerale chiamato nell’Europa del XVII secolo "natron", dal suo nome arabo natrun, ma non trattandosi certo di una risorsa abbondante, gran parte della soda e della potassa usate nel mondo antico e medievale provenivano da cenere di legna: venivano estratte per lisciviazione, facendo percolare l’acqua attraverso le ceneri e sciogliendone così gli alcali. La maggior parte della cenere fornisce potassa, ma quella ottenuta da piante costiere contiene più soda.

Chi si rese conto per la prima volta che sabbia e soda danno vetro quando vengono riscaldate sino al punto di fusione? Plinio riporta un gustoso aneddoto a proposito di questa scoperta che attribuisce ai Fenici, i quali abitavano l’area attorno al fiume Belus sulla costa del Mediterraneo a nord del Monte Carmelo. Egli scrive: «Si racconta che una volta vi attraccò una nave appartenente ad alcuni mercanti di natron, ed essi si sparpagliarono lungo la spiaggia per preparare un pasto. Tuttavia, non trovando pietre adatte a sostenere i loro calderoni, li poggiarono su blocchi di soda che facevano parte del loro carico. Quando questi si scaldarono e si mescolarono completamente con la sabbia della spiaggia, ne scorse a rivoli un liquido traslucido, e questa si dice fu l’origine del vetro».6

È una scenetta graziosa... ma sicuramente di fantasia, poiché i falò non raggiungono le temperature di circa 2.500 °C necessarie a fondere sabbia e soda. Inoltre, il vetro veniva fabbricato più di due millenni prima del resoconto di Plinio, e non in Fenicia ma in Mesopotamia, la terra che ora fa parte di Iraq e Siria.

Il vetro più antico che si conosca si trova qui, e risale a circa il 2500 a.C.; si trattò senz’altro di una scoperta fortuita, ma forse non tanto quanto Plinio vorrebbe far credere. Fu, più probabilmente, un risultato secondario di esperimenti in un altro settore: la manifattura di vetrina colorata per ceramica.

Ornamenti di steatite smaltati di blu, a imitazione del prezioso minerale azzurro lapislazzuli, venivano prodotti in Medio Oriente sin da circa il 4500 a.C. spolverizzando la superficie della pietra e scaldandola in presenza di minerali di rame come azzurrite o malachite. Questa sostanza vetrosa blu è divenuta nota come "ceramica egizia" (tav. 3.2), benché fosse prodotta in Mesopotamia molto prima che diventasse un’industria in Egitto. Apparsa per la prima volta nella valle del Tigri e dell’Eufrate, la ceramica veniva fabbricata nella regione del Basso Nilo verso il 3000 a.C., e 1.500 anni dopo il commercio l’aveva diffusa in tutta l’Europa.

Per ottenere le alte temperature necessarie a fondere i minerali nella produzione di ceramica, il fuoco deve essere ventilato o soffiato; i manufatti venivano protetti dal fumo e dalla cenere inserendoli in un recipiente con coperchio o nella camera di un forno: i forni da terracotta in Mesopotamia risalgono al 4000 a.C. Pare molto probabile che più o meno in questo stesso periodo i progressi tecnologici delle fornaci messi a disposizione dall’antica manifattura di oggetti smaltati di blu abbiano portato alla scoperta della fusione del rame dal suo minerale. L’amore per il colore spalancò le porte all’Età del Bronzo.

Si può immaginare che la sabbia si sia regolarmente mescolata e fusa con le ceneri durante la cottura della ceramica... e che all’interno della fornace raffreddata, artigiani stupiti o compiaciuti abbiano rinvenuto i blocchi duri e traslucidi di vetro grezzo.

Gli abitanti della Mesopotamia scoprirono che il vetro migliora con una piccola aggiunta di calce; una ricetta di un antico testo cuneiforme riporta: «Prendete sessanta parti di sabbia, centottanta parti di ceneri di piante marine, cinque parti di gesso, scaldate tutto assieme e otterrete vetro». 7 Se era inquinato da minerale di rame proveniente dalla fabbricazione della ceramica, il vetro poteva risultare azzurro; senza dubbio la fritta blu egizia fu un altro risultato fortuito di questi esperimenti, poiché gli ingredienti sono gli stessi.

Nell’antico Egitto il vetro divenne un prodotto tecnologico importante verso la metà del III millennio a.C. Il colore lo trasformava in un materiale adatto a contenere gli unguenti di faraoni e regine; i minerali di cobalto fornivano un blu più profondo di quello del rame, i verdi provenivano da ossidi di ferro o di rame, il giallo e l’ambra da ossido di ferro e il porpora da biossido di manganese.

Alcuni composti metallici creano colori opachi: giallo dall’ossido di antimonio, bianco dall’ossido di stagno; queste ricette furono usate con scarse modifiche nel Medioevo per le grandiose vetrate istoriate delle cattedrali. 8

È assai più difficile, di fatto, produrre vetro non colorato, poiché le impurità di ossidi di ferro presenti negli ingredienti naturali tendono a conferirgli una tinta verdastra o marroncina (il termine latino vitrium, vetro, deriva dalla parola indicante un colore verde-azzurro. Anche il termine celtico glas indica questa sfumatura). Gli artigiani medievali scoprirono che questa colorazione poteva essere eliminata aggiungendo piccoli quantitativi di biossido di manganese, che divenne perciò noto come "sapone dei vetrai".

Il vetro ricavato da sabbia e soda o natron sostituì in seguito la steatite nella tecnica di vetrificazione della ceramica in Egitto. Anche gli oggetti d’argilla venivano colorati in questo modo: alcune delle vetrine egizie più antiche si trovano su perle d’argilla, prodotte facendole cuocere con una mistura di soda e minerale di rame.

Mentre nella ceramica il minerale di rame viene mescolato alla pasta dell’oggetto che deve tingere, la vetrina propriamente detta si applica sulla superficie dell’oggetto finito, dato che è più facile controllarne lo spessore e il colore se viene stesa post hoc: le più antiche vetrine per ceramica erano fondamentalmente sottili rivestimenti di vetro colorato, miscele di soda e sabbia con un po’ di argilla per farla aderire. Molte di quelle che si trovano sul vasellame egizio di terracotta sono colorate con gli stessi minerali usati per il vetro: ci si può solo domandare se li abbia sfruttati prima il vasaio o il vetraio.

Queste "vetrine alcaline" (cosi dette a causa del contenuto di soda) erano difficili da applicare, e raffreddando tendevano a ritirarsi, provocando screpolature e distacchi (o "cadute"). Dal 1500 a.C. circa in tutto il Medio Oriente le vetrine in genere contenevano piombo, il quale riduce il coefficiente di restringimento: mattoni e piastrelle con smalti vitrei al piombo erano diffusi in Mesopotamia dal 1000 a.C. circa; i Babilonesi ottenevano vetrine al piombo semplicemente macinando un minerale, la galena (solfuro di piombo), fino a ricavarne una polvere fine, che veniva poi spennellata sull’argilla. Quando viene scaldato, il composto di piombo fonde, producendo un rivestimento liscio e lucente che può essere colorato con l’aggiunta di ossidi di rame, ferro o manganese.

Il caratteristico vasellame rosso e nero delle civiltà greca e romana è colorato con una fascia di argilla rossa mista a materia organica o ossidi di ferro. Questa tecnica di smaltatura, ispirata dal desiderio di imitare le ceramiche dell’Oriente, sembra sia stata ideata a Micene verso il 1500 a.C., e venne sostanzialmente migliorata dai Greci attici nel VI secolo a.C. Purtroppo il segreto del vasellame rosso e nero andò perduto per l’Occidente dopo la caduta dell’Impero romano, verso il IV secolo d.C.

Circa settecento anni dopo, gli Europei cominciarono ad apprezzare la ceramica moresca con riflessi vitrei, luccicante di vetrine iridescenti che contenevano metalli puri o i loro solfuri; era prodotta con un procedimento complesso, che prevedeva solfuri di rame o argento, ocra e aceto, a testimonianza della straordinaria abilità dei chimici arabi. Anche la ceramica bianca detta maiolica, rivestita di uno smalto vitreo opaco contenente stagno, fu un’innovazione orientale; forse già nel XII secolo venne introdotta – via Maiorca – in Italia, dove nelle regioni centrali fece sorgere un’industria che sarebbe diventata di primaria importanza nei successivi quattrocento anni.

Nell’antichità, l’altro principale volano dell’innovazione nel campo dei colori fu la manifattura tessile, poiché gli indumenti colorati assolvevano all’importante funzione di segnalare la gerarchia sociale (e si potrebbe dire che lo fanno ancora).

Per tradizione, i coloranti venivano fissati ai tessuti per mezzo di mordenti: sostanze che contribuiscono a far aderire l’agente colorante (di solito un composto naturale organico) alle fibre della stoffa; Plinio parla con ammirazione delle tecniche egizie di mordenzatura: «Anche in Egitto utilizzano un procedimento molto interessante per la tintura dei tessuti: dopo aver pressato il materiale che all’inizio è bianco, lo saturano non con coloranti, ma con mordenti destinati ad assorbire il colore. Fatto questo, i tessuti in apparenza ancora immutati, sono immersi in un calderone di tintura bollente, e un attimo dopo ne vengono tolti completamente colorati. È un fatto curioso, inoltre, che nonostante la tintura nel calderone sia di un unico colore uniforme, il tessuto che ne viene tolto è di vari colori, secondo la natura dei mordenti che vi sono stati applicati: per di più, questi colori non sbiadiranno col lavaggio». 9

Plinio non specifica i mordenti usati in questo caso, ma in genere si trattava di allume (solfato di alluminio).10 Altrove dice che l’alumen, una «terra salata», si trova in molte località, dall’Armenia alla Spagna; veniva estratto fin dall’inizio del III millennio a.C., e il suo impiego nel fissare i coloranti risale almeno all’inizio del II. Le sue proprietà astringenti lo rendevano prezioso anche come medicinale.

La produzione di allume costituì un’importante industria medievale: nel XIII e XIV secolo, la maggior parte di esso proveniva dalle isole greche e dal Vicino Oriente. La presa di Costantinopoli da parte dei Turchi nel 1453 pose fine a questo commercio e portò a una carenza di allume a cui fu più tardi posto rimedio grazie alla scoperta di depositi di alunite (un sale di alluminio e potassio) nei territori della Chiesa in Italia. Le forme minerali di allume dovrebbero teoricamente essere purificate prima di usarle come mordenti, per eliminarne i sali di ferro presenti in genere come impurità che danneggiano i tessuti. Gli alchimisti arabi lo sapevano almeno dal XIII secolo, epoca a cui risale la descrizione di un procedimento di purificazione basato su un trattamento con urina rancida, che contiene ammoniaca.

I tintori trassero vantaggio dalla scoperta della soda caustica (idrossido di sodio), menzionata per la prima volta nella Naturalis historia (Storia Naturale) di Plinio nel I secolo d.C. Nota in epoca medievale come lisciva, è ottenuta da soda e calce (idrossido di calcio); quest’ultima si ottiene scaldando gesso o calcare (per ricavare calce viva: ossido di calcio) e poi "spegnendola" con l’aggiunta di acqua. La lisciva, una sostanza alcalina più potente della soda o della potassa, aiuta a estrarre i coloranti dalle loro fonti naturali; è anche usata per fabbricare il sapone, un’invenzione, sembra, non dei "civili" Romani, ma dei "barbari" Galli. Il sapone solido, ottenuto facendo bollire grassi o oli vegetali nella soda caustica, sembra si sia diffuso in tutta Europa a partire dall’800 d.C.

E poi c’erano i colori in sé. Tra i più bei coloranti antichi, vi erano il blu indaco, che è trattato nel Capitolo 9, e una tintura rosso cupo, ottenuta da un insetto: nel suo tonante ammonimento al Regno di Giuda a temere l’ira del Signore, il profeta Isaia fornisce informazioni sulla tecnologia della tintura rossa in Terrasanta nell’VIII secolo d.C.: «Benché i tuoi peccati siano come scarlatto / saranno bianchi come la neve; / benché siano rossi come cremisi / saranno come landa».11

Lo scarlatto e il cremisi sono scelti qui per evocare il colore del sangue, e due millenni più tardi Cennino Cennini riconosce il «color sanguineo» di questo colorante. Nel Medioevo veniva chiamato "chermes" dal termine sanscrito kirmidja, "derivato da un verme"; il suo nome ebraico era tola’at shani, "scarlatto di verme". Il composto rosso si estrae da un insetto privo di ali, il Kermes vermilio, che infesta la quercia spinosa, Quercus coccifera, nel Vicino Oriente, in Spagna, nel sud della Francia e dell’Italia. La tintura, essenzialmente un composto organico che i chimici chiamano "acido chermesico", viene estratta schiacciando gli insetti incrostati di resina e facendoli bollire nella lisciva.

"Kermes" è la radice linguistica dell’inglese crimson e carmine, del francese cramoise e dell’italiano cremisi. Ma poiché le incrostazioni di insetti sui rami assomigliano a grappoli di bacche, gli scrittori greci come l’allievo di Aristotele Teofrasto (300 a.C. ca.) le chiamavano κóκκoς, che significa "bacca"; in latino diventò coccus, parola che si trova negli scritti di Plinio sulla tintura cremisi.12 Tuttavia egli usa anche il termine granum ("grano"), sempre alludendo all’aspetto ingannevolmente vegetale degli insetti; "grana" così divenne uno dei nomi ambigui con cui questa tintura rossa era nota nell’Europa medievale. Chaucer descrive un tessuto tinto in grana, intendendo dire tinto di cremisi, mentre Guinizelli precisa: «Viso di neve colorato in grana». A causa della natura solida e durevole di questo colorante, la frase venne a significare fortemente, o permanentemente, colorato, e ciò spiega il termine inglese ingrained (letteralmente: "tinto in grana"); nella Dodicesima notte, Olivia dice della propria carnagione: «È tinta in grana, signore: resisterà al vento e alla tempesta», che è più di quanto si possa dire di molti dei coloranti dei tempi di Shakespeare.

La terminologia diventò ancora più confusa nell’Europa dell’inizio del Medioevo: nel IV secolo san Gerolamo chiama il chermes sia baca ("bacca") sia granum; però sa che la fonte non è una bacca, ma un animale, e quindi utilizza il sinonimo vermiculum, che significa "piccolo verme", da cui deriva la parola "vermiglione": un pigmento rosso sintetico, ottenuto da zolfo e mercurio. Come mai un termine indicante una tintura organica ricavata da un insetto venisse usato per un pigmento inorganico ottenuto con l’alchimia è un enigma che si spiega solo alla luce del concetto medievale di colorazione: si riteneva infatti che una tinta fosse strettamente collegata alla sua composizione, e quindi sostanze di colore simile, anche se di origine molto diversa, potevano essere chiamate con lo stesso nome.

Colore. Una biografia: tra arte, storia e chimica, la bellezza e i misteri del mondo del colore
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