Recuperare il passato
Ogni importante museo deve avere a disposizione un’équipe di solerti restauratori se non vuole che la sua collezione cada rapidamente in uno stato pietoso. Le relazioni tecniche di queste équipe sono una lettura illuminante. È possibile incontrarvi i propri quadri preferiti, come il Bacco e Arianna, in forma appena riconoscibile, prima che i restauratori vi mettessero mano; ben presto ci si trova ad aggirarsi nelle gallerie con occhio sospettoso, domandandosi: questo è un prima o un dopo? Questi cieli dovrebbero davvero essere così dilavati? Questi verdi proprio tanto scuri? Disgraziatamente molti cambiamenti sono irreversibili, ma la capacità di individuarli permette di ri-valutare il dipinto, di intuire quanta bellezza doveva esserci prima che un oltremare si annerisse, prima che una lacca rossa sbiadisse. Presto ci si renderà conto che non si dovrebbe intraprendere un’analisi critica di opere pittoriche senza una profonda conoscenza di come invecchiano i colori.
Restaurare un quadro importante è un’impresa colossale e impegnativa, e quindi molte delle opere meno famose appese alle pareti dei musei non arriveranno mai a meritare un’attenzione del genere; per ogni dipinto come Gli ambasciatori di Hans Holbein della National Gallery di Londra, recentemente riportato al suo splendore originale, vi sarà mezza dozzina di tele minori destinate a restare per sempre brunastre.
Per comprendere ciò che può accadere a un dipinto famoso, influenzando di conseguenza il modo di percepirlo, si consideri la stupenda Figura allegorica (1459-63 ca.; tav. 11.2) di Cosmè Tura. Si tratta di una delle prime opere italiane dipinte principalmente a olio; i colori sono affascinanti, prodotti con una tecnica di velatura che porta il marchio inconfondibile dei Paesi Bassi. Si è sempre pensato che fosse una risposta del pittore italiano ai lavori di Rogier Van der Weyden, che potrebbe aver incontrato Tura durante una visita in Italia nel 1450.
Non si sa che cosa l’allegoria rappresenti: è un’immagine inscrutabile, e perciò ancor più emozionante. La figura seduta guarda fisso con una serenità misteriosa, quasi enigmatica; ma è possibile riconoscerla nel «demone crudele» descritto da un commentatore degli anni Cinquanta? Tale, sembra, essa appariva prima dell’intervento di pulizia e di restauro eseguito negli anni Ottanta. Crepe nella vernice, assieme a ritocchi scoloriti e privi di sensibilità, avevano conferito alla figura un’espressione feroce; inoltre il volto, delicatamente modellato con lumeggiature e ombre, a quell’epoca era ridotto a un viso piatto, «liscio come una maschera». Le vicissitudini del tempo avevano alterato lo stile complessivo del dipinto.
Quando i restauratori del museo ne ripercorsero le vicende per scoprire le origini del danno, venne alla luce una ben triste storia. Nel 1916 la National Gallery aveva ricevuto questa tavola in eredità, alla morte dell’ultimo proprietario, George Somes Layard. Nel 1886, questi, ritenendo che l’opera avesse bisogno di restauri, l’aveva inviata, insieme con parecchie altre, al restauratore milanese Giuseppe Molteni; non si trattava di un impegno da poco: Layard si lamentò in seguito che il restauro gli era costato quanto il prezzo iniziale del dipinto.
Secondo la mentalità di Molteni, non insolita a quell’epoca, i quadri che gli venivano affidati avrebbero tratto vantaggio da cambiamenti apportati per "migliorarli", adeguandoli ai gusti ottocenteschi, il che poteva comportare una ridipintura piuttosto consistente. Fortunatamente, la tavola di Tura vi sfuggì almeno in parte, subendo solo i tentativi di Molteni di ridurre i contrasti nelle ombre profonde dei tessuti rosa. Sembra però che il restauratore abbia ricoperto i colori sfolgoranti con uno strato di vernice marrone, il cui colore non derivava da qualche difetto di produzione, ma era intenzionale. Egli aveva l’abitudine di colorare le proprie vernici con pigmenti nerastri e bruno-rossicci, tipo la terra di Cassel. Modificato con tanto "buon gusto", il dipinto fu restituito al proprietario.
Nel 1921, poi, la National Gallery spedì la tavola lignea al Victoria and Albert Museum per un trattamento antitarlo: prelevata da un ambiente chiuso, nel cuore dell’inverno, può darsi che il legno, esposto al cambiamento repentino di temperatura e di umidità, si deformasse, causando crepe nella pittura. Al Victoria and Albert il dipinto venne fumigato con cloroformio, che, si scopri in seguito, intaccava la pittura provocandovi bolle, danno che si rivelò particolarmente grave dove era stato usato resinato di rame verde, poiché il solvente organico ammorbidiva la resina e la faceva gonfiare.
Nel 1939 si tentò di porre riparo alle sfaldature e la tavola venne inviata a una ditta specializzata in restauri, dove si cercò di riattaccare le scaglie sollevate, pressandole con un attrezzo pesante; purtroppo molte si sbriciolarono, staccandosi del tutto, cosicché quelle zone di colore andarono perdute. I punti più danneggiati furono allora ritoccati a mano.
Negli anni Ottanta il primo compito dei restauratori fu togliere tutta la robaccia accumulatasi sulla tavola nel corso dell’ultimo secolo. La vernice marrone e i ritocchi furono abbastanza facili da asportare con alcool metilato. Su alcune aree danneggiate, come le scrostature della veste rosa, era stata stesa una spessa vernice nera, che fu minuziosamente grattata via con un bisturi.
Quest’opera di pulitura rivelò alcuni dettagli dell’opera indistinguibili in precedenza, come gli strani sbuffi di nuvola nell’angolo in basso a sinistra, e le differenze di colore tra il rosa della veste e quello, più pallido, del marmo. Il volto della donna fu riportato all’espressione originale, più dolce; bolle e scaglie della pittura furono riattaccate usando colla e una spatolina riscaldata.
Questa immagine ripulita, però, era penosa a vedersi, percorsa com’era da una sottile ragnatela di crepe, tanto che in alcuni punti sembrava di guardare la figura attraverso una rete (fig. 11.1). I restauratori decisero che una parte di queste incrinature dovesse essere tenuta: si trattava, dopotutto, di un aspetto inevitabile del processo di invecchiamento, una sorta di marchio d’autenticità noto come craquelure. Ma perche lo si potesse esporre, era essenziale apportare qualche ritocco al dipinto, soprattutto nella zona del viso: vennero adoperati pigmenti il più possibile simili a quelli che dovevano figurare nella bottega di Tura, legati però con un mezzo moderno. Le lacune furono riempite fino a che le crepe si ridussero a righe sottili; dove il danno era particolarmente grave, i ritoccatori lavorarono in base a vecchie fotografie del quadro, prese quando ancora si trovava a Venezia, nella collezione Layard.
Può essere deludente sapere che opere come questa sono in genere coperte da sottili pennellate di origine moderna, anziché essere dovute solo alla mano dei maestri del Rinascimento, ma è chiaro che l’alternativa è rappresentata o da un versione distorta e scolorata, modificata per adeguarle ai giudizi anacronistici di un’altra epoca, o da una superficie frammentata, pallido fantasma della potenza e della brillantezza originali del dipinto.
È confortante forse il fatto che l’odierno concetto di manutenzione museale metta l’accento sulla conservazione piuttosto che sul restauro. Mentre a volte è impossibile evitare la ridipintura, in genere la si riduce al minimo,1 e gli sforzi sono volti essenzialmente a mantenere l’integrità originaria dell’opera, invece di ricostruirla nel (vano) tentativo di conservare per sempre l’aspetto che aveva appena dipinta. Ciò significa che il restauratore non cerca di completare il dipinto, ma di creare un insieme equilibrato, lavorando in modo creativo sui danni e i guasti dell’invecchiamento, e non occultandoli. In alcuni casi, vaste zone danneggiate non vengono affatto ritoccate, ma semplicemente lasciate vuote, in un colore neutro, in modo che l’osservatore possa vedere dove si trovano senza esserne distratto; si può concedere che un po’ di sporco resti sulle parti brillanti che il diverso invecchiamento dei pigmenti renderebbe dissonanti con le zone più tenui che le circondano. Come spiega Ernst Gombrich a proposito dei restauratori: «Ciò che vogliamo da loro non è che riportino i pigmenti all’antico colore, ma qualcosa di infinitamente più difficile e delicato: che conservino i rapporti [tonalil».2
Il restauro della tavola di Tura ebbe una ricompensa imprevista. Per individuare le superfici ridipinte, venne fotografata ai raggi X, tecnica per evidenziare i pigmenti che li assorbono fortemente, come quelli contenenti piombo. I raggi X mostrarono i contorni di un trono alle cui spalle vi era una fila di alte colonne simili a canne d’organo, rivelando che l’artista inizialmente intendeva affrontare un soggetto completamente diverso. Il dipinto fu radicalmente trasformato durante l’esecuzione, fatto alquanto insolito nel XV secolo, e forse non si saprà mai che cosa intervenne a cambiare i progetti di Tura.