La magia del colore
La visione prismatica di Turner è evidente soprattutto in Luce e colore (La teoria di Goethe) – Il mattino dopo il Diluvio (1843 ca.), una composizione quasi astratta in cui figure scure a stento visibili occupano un campo colorato risplendente di colori primari. Come dice il titolo, il quadro fu dipinto dopo che l’artista ebbe letto la traduzione inglese di sir Charles Eastlake dell’opera di Johann Wolfgang von Goethe Die Farbenlehre (La teoria dei colori, 1810).
Forse bisognerebbe essere particolarmente grati a Goethe per avere dato un po’ di sollievo dalla morta gora del marroncino imperante... portato a un risveglio delle possibilità del colore prismatico. Le opere scientifiche del poeta paiono guidate tanto da una convinzione personale, quanto da una ricerca metodica, e i violenti attacchi alla «vera fortezza del sapere di Newton» presenti in Contribution to Optics (Contributo all’Ottica, 1791) e la successiva teoria dei colori sono reazionari quanto erronei. Egli riproponeva, per esempio, l’idea aristotelica che il colore è il risultato di una miscela di chiaro e di scuro; non conoscendo la distinzione tra sintesi additiva e sintesi sottrattiva, Goethe riprendeva la vecchia obiezione che la luce bianca non può assolutamente essere composta da tutti i colori dell’arcobaleno (come invece asseriva Newton), perché la corrispondente miscela di pigmenti dà quasi l’esatto contrario. Tuttavia non giunse mai fino a ripetere l’Experimentum crucis di Newton per controllarne l’esattezza; ma ammonì invece tutti quanti a «evitare la camera oscura, dove vi mostrano luci distorte».
Per Goethe, chiaro e scuro potevano equivalere ai due soli colori "puri": il giallo e l’azzurro. Il rosso, diceva non era «un colore individuale, ma... una proprietà che può riferirsi all’azzurro e al giallo». Così il rosso in qualche modo proverrebbe da un «sovrapporsi di particelle [azzurre e gialle]»; questo, supponeva, era diverso dal risultato ottenuto quando i due colori erano «mescolati ma non uniti»: in tal caso si produceva il verde. Nel modo spesso indicativo di un confuso pensiero pseudoscientifico, Goethe cercava di porre queste dualità alla base di un’intera serie di affermazioni antipodali: l’azzurro è "freddo" e "maschio", il giallo "caldo" e "femmina" e così via. Una delle infelici eredità della sua filosofia è questa tendenza verso ontologie polarizzate, adottate più tardi senza riserve dai movimenti teosofista e antroposofista.
Tuttavia, dall’intreccio di esperimenti pratici e pensiero fantastico di Goethe emergono alcuni concetti utili: la sua teoria del colore attirò un’attenzione provvidenziale sugli aspetti psicologici del colore, piuttosto che su quelli puramente fisici. E il suo insistere sulle polaricà contribuì a consolidare l’idea dei colori complementari, che sarebbe stata tanto importante nell’uso dei colori – sia dal punto di vista teorico che da quello pratico – da parte degli artisti del XIX secolo.
All’inizio del XIX secolo il Romanticismo rappresentava l’avanguardia e la filosofia di Goethe parlava alla sua anima fantasiosa. In Germania Goethe intrattenne una corrispondenza sulla teoria dei colori con l’artista romantico Philipp Otto Runge (1777-1810). In Inghilterra, il Romanticismo trovò espressione nei vivaci colori primari della Confraternita preraffaellita e di William Blake (1757-1827).
Le appassionate fantasie dei preraffaelliti John Everett Millais (1828-96), William Holman Hunt (1827-1910) e Dante Gabriel Rossetti (1828-82) richiedevano colori vibranti e l’uso che ne fecero sollevò nel mondo artistico britannico della metà del XIX secolo lo stesso scalpore che gli impressionisti avrebbero scatenato in Francia vent’anni dopo. Il loro rifiuto di attenuare i toni brillanti della natura per conformarsi alle pastoie del buongusto portò il Times a denunciare nel 1851 la loro «singolare devozione agli accidenti più minuti... alla ricerca di ogni eccesso di puntigliosità e deformità». Da parte loro i preraffaelliti deridevano il tetro chiaroscuro della Royal Academy e ne avevano soprannominato il presidente, Joshua Reynolds, «sir Sloshua Slosh» ("fanghiglia melmosa"). Holman Hunt si scagliava altresì contro il modo in cui si era permesso che gli antichi maestri della National Gallery, per effetto del tempo e di spessi strati di vernice, diventassero «scuri come il vassoio della nonna».
Per ricavare il meglio dai loro pigmenti, i preraffaelliti copiarono le abitudini di Rubens e dei grandi maestri veneziani stendendo su fondi bianco opaco strati sottili di colori appena mescolati, per ottenere la massima luminosità. Il mercante di colori Roberson forniva loro tele già preparate con un chiarissimo fondo di bianco di zinco. L’Ofelia (1851-52) di Millais è gremita di materiali nuovi: blu cobalto, ossido di cromo, giallo di zinco, giallo cromo e la più ricca lacca di robbia; i verdi brillanti qui sono ottenuti mescolando blu di Prussia e giallo cromo. I preraffaelliti provarono ogni tipo di miscela dei nuovi gialli e azzurri, per catturare la natura verdeggiante: cromati di bario e stronzio con blu di Prussia, oltremare sintetico o blu cobalto. I risultati, dicevano i detrattori, erano «abbastanza acerbi da far venire l’indigestione».
Holman Hunt nutriva un profondo interesse per i materiali e la tecnica, e corrispondeva con Field a proposito della durevolezza dei pigmenti; si sforzava il più possibile di usarli senza mescolarli, proprio come raccomandava il fabbricante. Nel Risveglio della coscienza (1853) egli impiega gialli forti – di cromo e stronzio – come pure blu cobalto, verde smeraldo e, in particolare, un arancio puro relativamente nuovo, l’arancio Marte. Rossi e porpora vividi spiccano nel suo Valentino che libera Silvia da Proteo (1850-51; tav. 7.2), dove persino la terra brilla delle tonalità infuocate dell’autunno, punteggiata di una luce palpitante che prefigura la rivoluzione pittorica che stava per scoppiare sull’altro lato della Manica.