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Chiusi la valigia e la lasciai vicino alla porta. Il mio aereo non sarebbe partito da Heathrow prima di quattro ore e ci sarebbero stati gli inevitabili disagi dovuti alla neve. Le piste erano sgombre ma dovevano partire i voli precedenti in ritardo, quindi avevo tutto il tempo per andare in aeroporto, fare il check-in e sottopormi ai vari controlli di sicurezza istituiti dopo l’11 settembre 2001.

Erano passati due giorni da quando avevo ucciso Adam. Due giorni di domande e congetture. Adesso il quadro era chiaro, tutti si erano opportunamente coperti il culo e io stavo per partire alla volta di un paese caldo. Il maltempo sarebbe continuato per un po’, ma quello era un problema di Hatcher, non mio. Il cattivo era stato tolto di mezzo ed era venuto il momento di levare le tende. Morto o in carcere, per me non faceva grande differenza. Avrei dormito sonni tranquilli, come sempre.

Uscii sul balcone a fumarmi l’ultima sigaretta, con la mente già rivolta a un altro caso. Lo facevo sempre. Quando i cattivi venivano presi, cessavano d’essere interessanti. Lo restavano invece quelli ancora a piede libero, che non mancavano mai.

Bussarono alla porta. Non era il tipico tocco deciso del servizio in camera. Era più esitante: una persona che chiedeva anziché pretendere di entrare. Aprii e mi ritrovai davanti Templeton con quel suo fantastico sorriso e il braccio legato al torace. L’intervento era andato bene, ma avrebbe fatto scattare i metal detector negli aeroporti per il resto della sua vita. Vide la valigia sbirciando al di sopra della mia spalla.

«Vai da qualche parte?»

Mi spostai per lasciarla passare. «Non dovresti essere in ospedale?»

Si avvicinò al divano e si sedette pesantemente. Dalla rigidità dei movimenti si capiva che sentiva ancora male.

«Come va il dolore?» chiesi.

Mosse l’unica mano buona per indicarmi che non andava molto bene. «In questo momento i farmaci stanno facendo effetto, perciò è sopportabile. Tra un’ora e mezzo inizierà la parabola discendente e non lo sarà più.»

«Non avrebbero dovuto dimetterti prima di domani.»

«Sono scappata quando le infermiere non vedevano.» Tacque, facendosi seria. Distolse lo sguardo e quando mi fissò di nuovo, ogni serietà era svanita dal suo volto, sostituita da un’aria di vaga incertezza che non era da lei. «Non volevo che mi ricordassi in un letto d’ospedale. Non sarebbe stato bello.» Tacque ancora e sorrise. «Volevo salutarti in modo adeguato.»

«E?» incalzai.

«E pensavo che avremmo dovuto parlare di quant’è successo. Sai, chiarire la faccenda.»

Rimasi in silenzio. Era sempre il comportamento migliore quando una donna diceva di voler parlare.

«Nel rapporto finale Hatcher ha affermato che Adam Grosvenor si è fatto ammazzare per evitare l’arresto.»

Mi stava osservando con attenzione, seria in viso. Stavolta rimasi in silenzio perché ci stavamo addentrando in un campo minato. Hatcher me lo aveva fatto leggere prima di presentarlo. Quel rapporto aveva chiuso definitivamente il caso. Erano tutti contenti: i superiori di Hatcher perché i cattivi erano stati presi e loro avevano fatto bella figura, i media perché avevano un’ottima storia per le mani e, almeno in parte, i parenti delle vittime perché avevano avuto in certo qual modo giustizia.

L’unica voce fuori dal coro era quella di Catherine Grosvenor, che ripeteva a quanti erano disposti ad ascoltarla che suo figlio era stato assassinato. Nessuno tuttavia le prestava grande attenzione. In fondo, era la sua parola contro quella di Hatcher.

E qui stava il problema, perché le cose non erano andate proprio come indicato nel rapporto. Hatcher aveva preparato un resoconto preciso e veritiero dei fatti, tranne per due aspetti. Primo, aveva dichiarato che avevamo trovato le Colt in casa. Secondo, aveva specificato che avevo avvertito Adam Grosvenor prima di premere il grilletto. Palesi menzogne il cui unico scopo era coprirmi il culo.

Non che per questo passassi notti insonni. Al di là di quant’era accaduto e di come si fossero svolti gli eventi, era stata una buona mossa. Adam Grosvenor si meritava di morire e Templeton di vivere. Semplice. Dal modo in cui mi fissava era chiaro che nutrisse dei sospetti, perché era sempre rimasta priva di conoscenza. Ma questo erano: sospetti. Annuì tra sé, segno che era giunta a una sorta di decisione. Il suo sguardo si addolcì, la serietà scomparve e tornò a essere la Templeton che conoscevo.

«Sono contenta che sia morto» disse e la tensione tra noi svanì.

«E io sono contento che tu sia viva.»

«Per merito tuo. Ma dovevi proprio spararmi?»

Feci una smorfia. «Credimi, avrei voluto ci fosse un altro modo.»

Scoppiò a ridere. «Rilassati, santo cielo. Ti sto prendendo in giro. In fin dei conti hai fatto quello che dovevi.»

«Se lo dici tu.»

«Certo. Se non fosse per te, adesso non sarei qui. Grazie per avermi salvato la vita.»

«Non c’è di che» risposi pentendomi all’istante. Era una di quelle espressioni molto più efficaci in teoria che nella pratica e dopo averla pronunciata, mi sentii un idiota. Seguì un breve silenzio. Templeton aveva detto quello che doveva dire e adesso che avevamo affrontato il punto cruciale, nessuno sapeva che fare.

«Posso provare a convincerti a restare un paio di giorni in più?» chiese rompendo il silenzio. «Almeno fin dopo Natale. Puoi fermarti da me. Nessuno dovrebbe star solo il giorno di Natale.»

«Io non sarò solo.»

«Il personale del prossimo albergo in cui finirai non conta.»

Non potei non sorridere. «Non sono un grande amante del Natale. È una festa di famiglia e io preferisco scordarmi la mia. Tenermi occupato.»

«Non insisterò, Winter, ma se cambiassi idea, sai dove sono.»

«Grazie.» Scendemmo e il concierge ci chiamò due taxi. Fece la telefonata, poi mi disse d’aspettare un attimo e scomparve nell’ufficio sul retro. La valigetta Samsonite di alluminio con cui riemerse era uguale a quella contenente le Colt 45. L’unica differenza era che questa era più grande e più pesante. La porsi a Templeton.

«Puoi tenerla» dissi. «È una specie di dono d’addio.»

«Che cos’è?»

«Scoprilo.»

Si avvicinò a un tavolo, la posò sopra e la aprì. Sgranò gli occhi e trattenne il fiato, poi la richiuse di colpo imprecando tra sé. Era stata tentata, forse per un secondo soltanto, ma era così.

«Un milione di sterline?»

«Non so se sia un milione, ma è una valanga di soldi. Banconote usate, se non mi sbaglio.»

«È un milione. La ricompensa per aver ritrovato Rachel Morris. Usala per pagarti il mutuo, comprati un’auto nuova. Fatti una vacanza.»

«Non posso tenerli. Sono di Donald Cole. Devo consegnarli.»

«Consegnali e scompariranno nel sistema» osservai. «Sai come vanno queste cose. La soluzione migliore è dividerli in quattro parti ed effettuare donazioni anonime alle famiglie delle vittime dei Grosvenor. Avranno bisogno di fondi. Puoi farlo, no?»

«Sì, certo.»

Il concierge ci avvertì che i taxi erano arrivati. Superammo la porta girevole e ci abbracciammo sul marciapiede. Per un istante pensai che l’abbraccio potesse trasformarsi in qualcosa di più. Lo sperai, ma ero abbastanza realista da sapere che non sarebbe successo. Cheerleader e studenti modello: non succedeva mai.

E il fatto di averle sparato non deponeva certo a mio favore.

Il momento passò e Templeton salì sul taxi. Mi rivolse un ultimo sorriso dal finestrino, poi l’auto partì. Le luci dei freni si accesero, il taxi rallentò per svoltare a destra e un istante dopo svanì.

Misi la valigia nel bagagliaio, salii sul sedile posteriore e dissi al tassista di portarmi a Heathrow. Avevo un aereo da prendere.