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Raggiunsi il letto in due falcate, piazzai la mano sulla bocca di Catherine Grosvenor e le tolsi la sonda di plastica dal dito. Il monitor cardiaco emise un lungo gemito, segno universale di morte. Nel cuscino, a un paio di centimetri dalla testa dell’anziana, c’era un foro e le piume ricaddero lentamente sul letto. Le orecchie mi ronzavano per lo sparo e l’odore di cordite invase la stanza bruciandomi le narici.

Catherine Grosvenor mi guardò furiosa e cercò di muovere la testa, l’unica parte del corpo che riusciva a comandare. Molte persone avevano desiderato la mia morte, ma nessuna tanto intensamente come lei in quel momento. Era fragile come porcellana e la bloccai facilmente. Le strinsi la gola arrestando il flusso della carotide. La sentii accasciarsi e le posai la testa sul cuscino.

Il tutto accade in pochi attimi, così in fretta che Adam non riuscì a elaborare quello che le orecchie gli dicevano. Aveva udito uno sparo e una frazione di secondo dopo il suono della linea piatta sul monitor. Era un’equazione semplice, ma il dolore lo aveva probabilmente ottenebrato.

«Cos’hai fatto?» mormorò. La sua voce si trasformò in un grido feroce di collera. «Cos’hai fatto!»

Mi avvicinai a Hatcher fino a sfiorargli l’orecchio con le labbra e gli spiegai il piano in tre secondi, sperando bastassero. Era una lotta contro il tempo.

«Ti abbiamo appena fatto il più grande favore della tua vita, Adam» rispose Hatcher. «Non dovrai più fare quello che ti dice.»

«Perché hai sparato alla mamma?»

Non era la risposta che mi attendevo. Come diavolo aveva fatto Adam a confondere la mia voce con quella di Hatcher? Lui parlava in modo molto diverso. Era un’altra prova di quanto fosse sconvolto.

«Non dovrai più fare quello che ti dice» ripeté Hatcher.

Mi avvicinai al carrello con gli strumenti, trovai un paio di forbici e un cerotto a nastro. Gettai quest’ultimo a Hatcher perché imbavagliasse Catherine Grosvenor. In base ai miei calcoli sarebbe rimasta svenuta per altri venti secondi e poi avrebbe iniziato a strillare. Avevamo bisogno che Adam la credesse morta, che piombasse in uno stato di shock e di negazione, che fosse confuso e incapace di pensare con lucidità. Era l’unica possibilità per Templeton. L’orbitoclasto era sul carrello nel seminterrato e avevo visto cosa sapeva fare con quello strumento.

Mi avvicinai a Rachel Morris e le accostai un dito alle labbra. Sta’ zitta. Tagliai le fascette, l’aiutai a rimettersi in piedi e uscimmo in corridoio. Alle mie spalle Hatcher parlava a ruota libera. Stava facendo un gran lavoro: manteneva Adam inchiodato al presente e la conversazione su un piano personale, usando il suo nome ogniqualvolta possibile. Gli prometteva il mondo senza in realtà concedergli un bel niente. Un approccio da manuale.

«Mi dica tutto quello che può sul luogo in cui la teneva» dissi quando fummo lontani dai microfoni della camera.

Lei iniziò a parlare e continuò finché raggiungemmo la porta che conduceva al seminterrato. Restai colpito dal suo autocontrollo, dalla sua concentrazione. Non chiese niente, non recriminò né si commiserò, rispose solo con precisione alle domande. Donald Cole ne sarebbe stato fiero.

Scesi le scale da solo e percorsi veloce il corridoio dello scantinato. L’interruttore della luce e lo sportello erano esattamente dove Rachel aveva detto. Mi stesi per terra con la testa accanto allo sportello. La plastica faceva da cassa armonica, amplificando quanto accadeva al di là.

La voce di Hatcher era distorta, tanto da ricordare quella di un robot infuriato. Questo spiegava perché Adam non lo avesse distinto da me. La sua voce invece era più bassa e naturale.

Mi costrinsi ad attendere, ad ascoltare, a essere paziente perché dovevo farmi un’idea di ciò che stava succedendo dall’altra parte. Non fu facile. L’adrenalina mi scorreva nelle vene e fremevo per la tensione. Nella voce di Adam c’era un tono di scherno che non mi piacque per niente, in quella di Hatcher un tono implorante che mi piacque ancora meno. La situazione si stava facendo critica.

Spalancai la porta ed entrai nel seminterrato. La luce era accecante. Si rifletteva sulle piastrelle bianche e sull’acciaio della poltrona odontoiatrica, accanto alla quale c’era Adam in piedi che stava usando Templeton come scudo. Le teneva il braccio sinistro ben stretto attorno al corpo e il coltello da caccia puntato alla gola. La sua testa era nascosta da quella di lei. Ovunque mirassi, non avevo una traiettoria libera.

Templeton era priva di sensi e molto malconcia. Stava in piedi solo perché Adam la reggeva. Il sangue le sgorgava dalla ferita sul ventre, ma questa mi era sembrata più brutta di quello che era: in realtà era superficiale, non metteva in pericolo la sua vita. Mi spostai a sinistra e Adam fece lo stesso girandosi in modo da tenere il corpo di Templeton tra noi.

«Butta il coltello, Adam.»

«Butta la pistola.»

La impugnai saldamente, sostenendo la mano destra con la sinistra. Al di là del mirino vedevo solo Templeton. Ovunque mi spostassi, c’era lei. Mi dissi che mi trovavo nel poligono di Quantico e che quello era un bersaglio di cartone, non una persona in carne e ossa. Mi dissi di calmarmi e imposi al mio cuore di rallentare i battiti fino a una frequenza più ragionevole.

«Escluso.»

«Butta la pistola altrimenti la uccido.»

«Se butto la pistola, la ucciderai lo stesso e poi cercherai di uccidere anche me.»

«Butta la pistola.»

«Perché lo hai fatto, Adam?» Dovevo guadagnare un po’ di tempo per riflettere. Avevo già vagliato tutti gli scenari possibili: qualsiasi mossa avessi fatto, Templeton sarebbe morta.

«Perché ho fatto cosa?»

«Perché hai lobotomizzato quelle donne? Ucciderle sarebbe stato molto più semplice.»

«La mamma mi ha detto di non ucciderle.»

«Ma sei stato tu ad avere l’idea di lobotomizzarle, vero?» La mia mente lavorava frenetica. Doveva esserci una risposta, un modo per uscire da quel pasticcio con Templeton viva. C’era sempre una soluzione. Sempre.

«Era la parte che preferivo.» Nella sua voce c’era un tono allegro. «Un attimo prima brilla la luce, un attimo dopo non c’è più. È curioso. Sembrano persone ma non lo sono. Sono vuote, simili a fantasmi.»

«Questa però non è la vera ragione, giusto?»

«Che vuoi dire?»

«Ce n’è un’altra, vero?»

«E immagino che adesso me la dirai.»

«Non hai più bisogno di far loro del male» dissi. «In realtà tu non volevi fargliene, giusto, Adam? Agivi così solo perché tua madre te lo diceva. Perché ti faceva arrabbiare e avevi bisogno di qualcuno su cui sfogarti.»

«Non sai di cosa parli.»

Dal tono capii di aver visto giusto, ma anche che la conversazione era finita. Per un istante il mondo smise di girare e il tempo si fermò. Tutto s’immobilizzò. Le dita di Adam strinsero di più il coltello. Avrebbe potuto tagliarle la gola da un momento all’altro, squarciarle la carotide e ucciderla in pochi secondi. Dopodiché l’avrebbe gettata per terra e avrebbe aspettato che gli sparassi. Lo avevo già visto: era così che di solito sceglievano di andarsene.

Ebbi un lampo d’ispirazione. Stavo ragionando tanto fuori dagli schemi da averli dimenticati. Ripassai mentalmente le mosse, più e più volte, accertandomi di non commettere errori. Proprio come al poligono, mi ripetei.

Premetti il grilletto e pensai a Sarah Flight che per altri cinquant’anni avrebbe fissato inespressiva al di là di una finestra, a tutto quello che era stata e che non sarebbe mai diventata, a tutte le potenzialità perdute. A sua madre che andava a trovarla ogni giorno e che sarebbe invecchiata. Pensai al giorno in cui non sarebbe più andata a trovarla e al fatto che Templeton aveva rischiato di fare la stessa fine.

Proprio come al poligono, mi ripetei.

Un bersaglio di cartone, non una persona in carne e ossa.

Viva è sempre meglio che morta.

Il primo proiettile colpì Templeton alla spalla. Quando la raggiunse, viaggiava all’incirca alla velocità di trecento metri al secondo. Avevo mirato all’osso e lo colpii, il che significò che Templeton assorbì gran parte dell’energia. Fu un urto violento che la scagliò all’indietro e la fece rotolare per terra. Il resto dell’energia doveva riversarsi su qualcosa, e questo qualcosa era Adam. La spinta che lo investì non fu forte come quella subita da Templeton, ma bastò a farlo ruotare e a togliergli il coltello di mano. L’arma cadde tintinnando sulle piastrelle, attutita dal rimbombo della Colt.

Mi buttai in ginocchio e aspettai un secondo e mezzo. In quel lasso di tempo Adam girò di centottanta gradi, come previsto. Ma, fatto più importante, si allontanò da Templeton. Fu una perfetta dimostrazione di fisica newtoniana, come due palle da biliardo che si scontravano.

Il secondo proiettile gli perforò la nuca, dal basso. Visto l’angolo di entrata, colpì l’osso prefrontale, il più spesso del cranio. Anziché uscire, rimbalzò nel cervello lacerandogli la corteccia, quella stessa parte che lui distruggeva con le lobotomie. Adam si accasciò come un fantoccio, morto prima ancora di toccare il pavimento.