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«Pensiamo che Adam abbia una partner. Una moglie o una fidanzata.»
Rachel scoppiò a ridere; una risata secca, amara. Era seduta sul materasso con la coperta sulle spalle. Fissò nel buio in direzione della poltrona.
«Cosa c’è di divertente?» chiese Sophie.
«Niente, a dire il vero. Adam mi fatto credere che la sorella lo aiutasse, ma era un altro dei suoi giochetti. Parlava con un’altra voce e fingeva di essere una donna. Io ci sono caduta in pieno. Stupida, eh?»
«No, Rachel.»
«Invece sì. E vuoi sapere qual è la cosa più stupida? Ho provato una pena sincera per lei. Pensavo fosse costretta ad aiutarlo.» Rachel scoppiò di nuovo a ridere. «Pensavo di lavorarmela, invece era Adam a lavorare me.»
«Non essere così dura con te stessa. Adam è un uomo intelligente, è un manipolatore, ed è anche un sadico. Si eccita a mettere sottosopra la testa delle persone.»
«Be’, vorrei lo facesse con la testa di qualcun altro.» Rachel si accorse di quello che aveva detto e aggiunse in fretta: «Scusami, non mi riferivo a te».
«Tranquilla, Rachel. Niente di tutto questo è colpa tua.»
«Voglio solo andare a casa» mormorò lei. Lungo il viso scesero nuove lacrime, che tuttavia asciugò subito.
Le luci si accesero di colpo e tutto divenne sfocato. Troppa luce e troppe lacrime. Rachel batté le palpebre e finì di asciugarsi il viso. Si guardò la mano deturpata: le faceva male, ma non come prima, e gran parte del dolore era localizzato là dove fino a poco prima c’era il suo mignolo. Guardò Sophie. Era pallida e tirata in viso, trasaliva a ogni minimo movimento. Lo sportello vibrò e due fascette stringicavi nere caddero per terra.
«Numero Cinque, raccogli le fascette.»
La voce distorta di Adam rimbombò dagli altoparlanti, forte e invadente. Rachel guardò Sophie e vide il panico dipinto sul suo volto. Spostava continuamente lo sguardo da un altoparlante all’altro.
«Non ti ci abituerai mai» le disse. «Pensi di sì, ma non è così.»
«Numero Cinque, raccogli le fascette o affronterai le conseguenze.»
Rachel si scrollò la coperta di dosso e attraversò il locale. Prese le fascette, fissò la telecamera più vicina e attese altre istruzioni.
«Numero Cinque, slega la prigioniera.»
Slacciò le cinghie e Sophie sprofondò di più nella poltrona, sfregandosi i polsi.
«Numero Cinque, sposta la prigioniera sul materasso.»
Rachel la cinse con un braccio e l’aiutò ad alzarsi. Attraversarono la stanza insieme, barcollando, la poliziotta pesantemente appoggiata a lei. Arrivarono al materasso e Rachel la fece sedere. Aveva il respiro affannoso e si sforzava di controllare il dolore. La sua aria impavida non ingannava nessuno. Sulla faccia le si leggevano tutta la tensione e lo sforzo di quella breve camminata.
«Numero Cinque, lega i piedi e le mani della prigioniera con le fascette. Le mani dietro la schiena. E accertati di stringerle bene.»
Fece come indicato. La fascetta era stretta, ma la tirò ancora di più per sicurezza. Adam le aveva detto di stringere bene e non gli avrebbe mai disobbedito dopo quello che aveva fatto a Sophie.
«Scusami» mormorò. Si avvicinò di più e tenne la voce bassa perché Adam non sentisse.
«Va tutto bene» rispose in un soffio Sophie.
«Non c’è niente che vada bene.»
Rachel passò la seconda fascetta attorno alle caviglie e la tirò con forza. Si alzò, fissò la telecamera più vicina e attese.
«Numero Cinque, vai alla poltrona e togliti i vestiti, tutti.»
Rachel non esitò. Si avvicinò alla poltrona, si sfilò la maglietta grigia, si tolse i pantaloni della tuta e le mutandine. Fissò per terra con la testa piegata leggermente verso destra e le braccia rigide lungo i fianchi. La porta si aprì e Adam entrò portando un secchio e un asciugamano. Sul braccio sinistro aveva un vestito porpora. Posò secchio e asciugamano per terra, dopodiché dispose l’abito con cura sullo schienale della poltrona.
«Numero Cinque, lavati.»
Nell’acqua saponata galleggiava una spugna e dal secchio si levavano spirali di vapore che formavano piccole nubi impalpabili. L’acqua era profumata di lavanda. Rachel prese la spugna e si pulì meticolosamente. Si lavò via di dosso la sporcizia, sfregandosi la pelle fino a sentire male.
Le ferite erano rosse e dolenti, ma i punti di sutura erano ancora al loro posto. Mentre si lavava, Adam si accostò al materasso e controllò le fascette. Nel seminterrato echeggiò un clic e Sophie gemette. Rachel s’immobilizzò, poi riprese a lavarsi veloce. Seguì un altro clic e un altro gemito. Stavolta non si fermò. Finì di lavarsi, si asciugò e attese altre istruzioni.
Adam indicò con un cenno il vestito porpora. Sopra c’erano un reggiseno nero e un paio di mutandine coordinate. «Numero Cinque, vestiti.»
Rachel indossò la biancheria. Le mutandine erano troppo strette, il reggiseno troppo largo. Erano antiquati, vecchi di qualche decennio più che di qualche anno. Anche il vestito era vecchio, elegante per i suoi tempi, ma erano tempi andati. Dalle spalline imbottite e dallo jabot poteva risalire agli anni Ottanta. Puzzava di naftalina.
Rachel se lo infilò dalla testa. Era stretto ma riuscì a indossarlo. Muovendo un dito, Adam le ordinò di girarsi di spalle. Le sue dita le sfiorarono il collo e lei si impose di non trasalire mentre lui agganciava i fermagli. Iniziò dal basso e risalì. Aveva le mani morbide e maneggiava i ganci con delicatezza. Quand’ebbe chiuso l’ultimo, indietreggiò e Rachel riprese a respirare. La squadrò da capo a piedi e le indicò la porta.
«Dopo di te, Numero Cinque.»