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Il vialetto era disseminato di buche come un campo minato, ma Templeton non parve curarsene. Guidò come se non ci fossero, con le sospensioni della BMW che gemevano e protestavano a ogni sobbalzo. Entrò in un cortile cintato da un muro e inchiodò, sollevando uno schizzo di ghiaia che tintinnò sotto l’auto.

Dunscombe House aveva qualche secolo, sicuramente più degli Stati Uniti. Nel corso degli anni avevano aggiunto varie ali: stili diversi, periodi diversi, architetti diversi. Sembrava un’accozzaglia di edifici messi insieme, assolutamente fuori dal tempo. Era abbastanza grande da poter essere considerata una villa, ma non un palazzo signorile.

Scendemmo dalla macchina e ci dirigemmo all’ingresso fianco a fianco. Templeton suonò il campanello e indietreggiò per guardare nell’obiettivo della telecamera di sicurezza. Sembrava voler sfidare chiunque fosse dentro a non aprire. Passarono due o tre secondi, poi la porta emise un clic, la serratura scattò e Templeton entrò come se fosse la padrona di casa: schiena dritta e passo ancheggiante. Da dietro, quei jeans aderenti erano fantastici.

L’albero di Natale al di là del banco della reception era alto tre metri: decisamente esagerato. Aveva un’infinità di decorazioni scintillanti, una miriade di lucine bianche, metri e metri di fili argentati e in alto una stella gigantesca. Templeton si avvicinò e mostrò il distintivo.

«Siamo qui per vedere Sarah Flight» disse.

L’impiegata sembrò sorpresa.

«C’è qualche problema?» chiesi.

Lei scosse la testa. «No, affatto. È solo che Sarah riceve poche visite.»

«Per “poche” cosa intende?»

«Sua madre le fa visita ogni mattina, regolarmente. Per poco non la incrociavate.»

«Altre persone?»

La donna scosse la testa.

«E il marito?»

Lei esitò, guardò a sinistra e poi a destra, segno tipico di chi conosceva un segreto.

«Non è mai venuto, vero?» dissi.

«Neanche una volta.»

«Dove la troviamo?»

«È nella sala comune.» L’impiegata indicò una porta a due battenti di fronte alla vecchia scala.

La sala comune era grande e ricordava una chiesa: pareti rivestite di legno, pavimento di parquet, soffitto alto a volta. Per gli addobbi natalizi non avevano badato a spese: dovevano esserci chilometri di festoni, fili e campane d’argento. L’albero di Natale davanti al caminetto non era grande come quello della reception ma pur sempre notevole, ed era stato decorato in modo simile, probabilmente dalla stessa mano.

La stanza puzzava di verdure stracotte, di sugo e di detersivi, come tutti gli altri istituti in cui ero stato. Ricordava un po’ l’ambiente di Qualcuno volò sul nido del cuculo. I pazienti erano sorvegliati da due inservienti, un uomo nero e una donna bianca, che parevano annoiati a morte. Stavano seduti a un tavolo vicino alla porta ad ammazzare il tempo fino alla fine del turno.

La poltrona di Sarah Flight era collocata davanti a un bovindo, da dove lei fissava inespressiva il giardino. Le erano ricresciuti i capelli. Erano lucidi, sani, acconciati con cura ed erano stati spazzolati di recente, forse dalla madre durante la consueta visita mattutina. Gli inservienti non si sarebbero mai presi la briga di farlo. Sarah portava un paio di pantaloni morbidi e larghi. Semplici da mettere e da togliere. Non era agevole spostare un peso morto di cinquantacinque chili e il personale cercava di rendersi la vita il più facile possibile. Dall’angolo della bocca le usciva un filo di bava che le colava sul mento.

«Hai un fazzolettino?» chiesi a Templeton.

Ne pescò uno dalla tasca e io le pulii delicatamente il viso. Era un piccolo gesto che sarebbe passato di certo inosservato, ma Sarah si meritava un minimo di dignità, anche se non ne era consapevole.

Quando avevo visto Patricia Maynard il giorno prima, avevo pensato che sarebbe stato meglio se fosse morta: ora pensavo la stessa cosa. Non era una conclusione a cui giungevo facilmente, perché qualsiasi forma di vita era preferibile a una tomba fredda e solitaria. Se sei vivo, al di là degli orrori che hai vissuto, hai sempre la possibilità di trovare un rimedio.

Ciò premesso, non sempre lo trovi, lo so per esperienza. Mia madre non aveva mai subito violenze fisiche da parte di mio padre, ma le cicatrici psicologiche erano profonde e alla fine l’avevano uccisa. C’è sempre una percentuale di sopravvissuti che si dà all’alcol o alla droga per soffocare i ricordi, e nei casi più estremi la vita diventa tanto insopportabile che qualcuno finisce per suicidarsi. La maggior parte, tuttavia, riesce in qualche modo a tirare avanti.

Restare vivi era sempre meglio che morire.

Guardai Sarah Flight seduta lì a fissare il vuoto con gli occhi vitrei e mi chiesi se non fosse l’eccezione che confermava la regola. Per lei non avrebbero mai trovato un rimedio, non c’erano miglioramenti possibili.

Mi sedetti accanto a lei, aprii il giaccone, mi misi il cappuccio della felpa e per un po’ restai immobile a guardare fuori. In testa mi mulinavano vari pensieri sul caso, ma feci il possibile per ignorarli. Volevo per qualche istante che la mia mente fosse vuota come il paesaggio innevato dall’altra parte del vetro. Il mio vero punto debole è l’incapacità di mantenere le distanze, la tendenza a farmi coinvolgere. Voglio disperatamente risolvere il caso da non vedere più niente.

Il sole invernale faceva sembrare tutto più nitido e reale, più definito. Si rifletteva sul prato imbiancato, incredibilmente luminoso, trasformando alberi e cespugli in sculture minimaliste. Era una scena da cartolina natalizia e mi demoralizzò l’idea che Sarah non avrebbe mai potuto ammirarla.

Per una frazione di secondo la scena cambiò: il giardino scomparve e la finestra divenne una sorta di specchio opaco che rifletteva me e lei. A causa dell’angolazione, della luce e della mancanza di una superficie riflettente dietro il vetro, era come se il mondo intero si fosse ridotto e contenesse solo noi due.

Poi tutto tornò normale e mi ritrovai di nuovo nella sala comune. Templeton era in piedi alle mie spalle, agitata. La vedevo riflessa nella finestra. Guardava l’orologio, il cellulare, i pazienti. Sospirò un paio di volte e si morse il labbro. Era una donna che aveva impegni e persone da vedere.

Passò un altro minuto, o meglio quarantacinque secondi. A quel punto si chinò, avvicinandosi abbastanza perché percepissi appieno l’effetto del suo profumo. Era buono, una di quelle fragranze che stuzzicavano la mia fantasia iperattiva stimolando pensieri allettanti e inopportuni.

«Se posso chiedertelo, che diavolo stiamo facendo qui, Winter?» Aveva parlato a voce bassa e il suo alito mi solleticò l’orecchio. «Te lo chiedo perché mi sembra che te ne stia lì a girare le dita quando dovremmo dare la caccia al maniaco.»

«Sto cercando di vedere le cose in prospettiva.»

Sorrisi e attesi che ricambiasse.

«Okay» rispose. «Ti ascolto.»

«Fai questo lavoro per catturare i cattivi, vero? È il tuo scopo finale. E sei brava nel farlo.»

Templeton mosse ambiguamente la testa: era l’unica ammissione che avrei ottenuto. Non lo avrebbe mai riconosciuto ad alta voce.

«Sei una persona ambiziosa» aggiunsi. «Motivata e capace, e in questo non c’è niente di male, proprio niente.»

«Dove vuoi arrivare?»

Indicai con un cenno Sarah Flight. Dall’angolo della bocca le era sceso un altro filo di bava che le tolsi con il fazzoletto.

«A lei. A lei e a tutte le altre persone che s’imbattono in un pazzo con una visione distorta del mondo e una mente bacata. Quando ti concentri completamente sul cattivo, ti scordi con troppa facilità delle vittime. Da questo punto di vista non sono migliore di altri. Perciò sono venuto qui per ricordarmi che la vera ragione di quello che faccio sono le vittime. Prendere i cattivi è solo un incentivo. Là fuori una donna è stata rapita e se non svolgiamo bene il nostro lavoro, finirà così.»

Toccai la mano di Sarah Flight, in parte perché volevo controllare che fosse vera, ma soprattutto perché dovevo sapere. Mi aspettavo quasi che la mia mano trapassasse la sua, ma non fu così. Che la sua pelle fosse fredda, invece era calda come la mia. Sull’unico dito che le restava c’era uno spazio vuoto, là dove un tempo portava la fede. I moncherini delle altre dita erano stati cauterizzati e coperti da tessuto cicatriziale. Chi le aveva tolto l’anello? La madre? Un dipendente di Dunscombe? Un’infermiera o un’inserviente che Sarah non avrebbe mai conosciuto? Una cosa era certa: non era stato Greg Flight. Mi alzai e mi avviai verso la porta. Alle mie spalle i passi di Templeton risuonarono esitanti e timorosi sul parquet. La sicurezza con cui era entrata era svanita.