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Nessuno mi prestò attenzione quando entrai nella sala operativa perché erano tutti al telefono. Fui investito da una miriade di conversazioni inframmezzate da abbondanti «sì signore» «sì signora» e sporadici inviti a raccontare esattamente che cosa avessero visto. Il lato negativo di una conferenza stampa era la valanga di persone che in seguito chiamavano per riferire informazioni perlopiù inutili.
Nella parte anteriore della sala c’era una serie di fotografie appese a una lavagna. Nella fila in alto cinque donne sorridevano felici e spensierate, in quella in basso quattro fissavano l’obiettivo con sguardo vitreo.
Qualcuno aveva sostituito le foto che avevo preso con copie identiche. Tutto era identico: gli occhi gonfi, i volti flaccidi, lo sguardo inespressivo dovuto sia ai soggetti sia al fotografo della polizia. Fui attratto dallo spazio vuoto sotto l’immagine di Rachel Morris. Riuscivo a immaginare cosa stesse provando in quel momento: angoscia, terrore, incertezza. L’incertezza era quella che ti uccideva: il fatto di non sapere che cosa sarebbe accaduto dopo.
Schemi, abitudini, familiarità aiutano ad arrivare a fine giornata e quando non esistono più, il caos prevale. Tutto quello che Rachel considerava vero e affidabile era scomparso, sostituito da un nuovo ordine su cui non aveva alcun controllo. Ora ogni aspetto della sua vita era regolato dai suoi carcerieri: il sonno, i pasti, le azioni, l’abbigliamento. Privata di tutti quegli elementi che costituivano la sua personalità, rimaneva solo una bambola rotta. L’equivalente psicologico di una lobotomia.
Caroline Brant, la vittima numero uno, era stata prigioniera per quattro mesi.
Margaret Smith, la numero due, due mesi.
Sarah Flight, la numero tre, tre mesi.
E Patricia Maynard tre mesi e mezzo.
La durata della prigionia m’inquietava perché sembrava casuale, e quando avevi a che fare con i criminali organizzati nulla mai lo era.
La prigionia della prima vittima sarebbe dovuta durare di meno, per una ragione logica: con lei il killer aveva realizzato le sue fantasie, dopo averle covate per anni. Aveva fatto delle prove, combinato pasticci e commesso errori. Inoltre, in situazioni simili subentrava spesso il panico: in tal caso avrebbe dovuto accelerare i tempi e scaricare la vittima prima del previsto. Aveva presumibilmente fatto parecchi sbagli e una volta recuperata la calma, si era ripromesso di agire nel modo giusto la volta seguente.
Perché l’unica cosa di cui potevi essere certo era che lo avrebbe rifatto. Superata quella linea, non sarebbe più tornato indietro. Via via che acquisiva sicurezza, che nutriva fantasie più complesse e perfezionava le tecniche, la durata della prigionia sarebbe dovuta aumentare: a quel punto si sarebbe preso tutto il tempo possibile per dedicarsi al suo piacere.
Invece aveva tenuto prigioniera la prima vittima più a lungo. Anche alla luce della convinzione che avesse fatto pratica in precedenza, i conti non tornavano. Mancava uno schema. Inoltre, doveva accadere qualcosa per giungere alla decisione di lobotomizzarle e scaricarle, una sorta di evento scatenante. C’era un motivo dietro a ogni mossa di un criminale organizzato, una logica nascosta. Il trucco era scoprire quale.
Le bambole rotte.
Riflettei sul concetto. Era possibile che il partner dominante le tenesse fino a piegarle nello spirito. Quando succedeva, diventavano inutili. Quell’uomo era un sadico e se non otteneva la reazione desiderata passava alla vittima successiva. La teoria reggeva: non spiegava la lobotomizzazione, ma giustificava la diversa durata della prigionia. La soglia del dolore era soggettiva e questo spiegava perché Caroline Brant fosse stata tenuta più a lungo: in quella fase il maniaco non era probabilmente così sicuro di sé. Doveva essersi trattenuto, controllato.
Mi spostai lungo la parete fino alla carta di Londra e la fissai cercando invano uno schema. Le puntine verdi indicavano l’ultimo luogo in cui erano state viste le vittime, le puntine rosse quelle in cui erano state ritrovate. La puntina rossa su St Albans spiccava in quanto anomala. Avevo un rapporto di amore-odio per le anomalie: amore perché significava che il criminale aveva abbandonato il suo perimetro di sicurezza, odio per la stessa ragione. L’anomalia era utile solo se riuscivi a capire perché lo avesse fatto.
Una delle puntine verdi era stata spostata dopo la riunione in cui avevamo analizzato il profilo. Gli uomini di Hatcher avevano battuto i bar delle zone più esclusive di Londra mostrando fotografie e parlando con il personale. Fino a quel momento avevano trovato solo un riscontro: Sarah Flight era stata notata in un bar di Chelsea. La sua foto aveva risvegliato la memoria di un barista: rammentava di averla vista sola e di aver avuto l’impressione che le avessero dato buca. Proprio come Rachel Morris. Il che era una buona notizia, perché significava che nella fase del rapimento il nostro uomo usava come modus operandi la tecnica di arrivare in ritardo. Quella cattiva era che non c’erano ancora notizie di vittime su cui avesse fatto pratica e, malgrado molti studenti fossero stati espulsi dalle facoltà di medicina, la squadra di Hatcher non ne aveva ancora trovato uno che corrispondesse al profilo.
Ero tanto assorto a osservare la mappa che non sentii Templeton avvicinarsi alle mie spalle. Fu il profumo a introdurla. L’uniforme era sparita, sostituita da un abbigliamento più casual: jeans e camicetta. Aveva un’espressione neutra. Era molto abile a controllare le emozioni e mi affascinava perché non sapevo mai che cosa pensasse.
«Come va?» domandò.
Anche il tono era neutro, come l’espressione. Non c’erano indizi né segnali che rivelassero il suo stato d’animo. «Siamo nella fase di stallo» dissi.
«Di stallo?»
«Succede in ogni indagine. Tutto quello che si poteva fare è stato fatto.»
«C’è sempre qualcos’altro che si può fare.»
Indicai la carta e le fotografie, le lavagne magnetiche piene di annotazioni scritte con grafie diverse. «Se ti risulta che ci sia sfuggito qualcosa, sarei lieto di saperlo.»
Lei studiò le lavagne e scosse la testa. «Niente,» ammise «nulla di nulla.»
Fissai ancora un po’ la carta ma non riuscii a cogliere uno schema. Però mi tormentava l’idea che ci fosse sfuggito qualcosa. La fase di stallo era sempre accompagnata dal dubbio. Avevamo fatto tutto il possibile? L’inattività mi metteva sempre in agitazione. In un mondo perfetto Hatcher avrebbe avuto risorse illimitate e tutto sarebbe accaduto molto più in fretta, ma quello non era un mondo perfetto e nella realtà ogni indagine andava incontro a un fase di stallo, o anche a più d’una.
«Alla fine dovrai perdonarmi» dissi.
«L’ho già fatto.»
La guardai. «Le sue labbra dicono una cosa, il suo linguaggio corporeo un’altra.»
«Lo ammetto, ero incazzata con te, Winter, ma l’ho superata. La conferenza stampa è stata una buona idea.»
«Solo se otterremo un risultato, altrimenti resterà un’idea stupida.»
Riprendemmo a osservare le lavagne.
Un minuto.
Due.
«Non abbiamo parlato molto della partner sottomessa» osservò infine Templeton.
«Allora sentiamo.»
«È una sorta di donna invisibile. Sembra che non esista.»
«Invece esiste» ribadii. «Ma il fatto che tu abbia sollevato l’argomento significa che ci pensi da un po’, quindi sentiamo cos’hai in testa.»
«Il Sezionatore è un maniaco del controllo, giusto?» Mi guardò per conferma e io annuii affinché proseguisse. «L’ha condizionata a tal punto che ha paura di respirare. Non appena può la disprezza, la insulta, la tiranneggia. Ha ingaggiato una guerra psicologica con lei e la vede come il nemico. Questa donna ha imparato da tempo a tenere quello che pensa per sé, perché tutto ciò che dice viene ridicolizzato e accolto con ostilità. Il punto è che oggi non parla quasi, perché ha troppa paura di farlo.»
«Perché?»
«Perché l’unica persona con cui ha contatti è il Sezionatore. Lui non le permette di incontrare nessuno.»
«La vedo sostanzialmente nello stesso modo» affermai. «Okay, ti do un altro spunto: si è ridotta così a causa del suo legame con il sequestratore? O lo era già prima che si conoscessero?»
Templeton sorrise. «Il fatto che lo dici significa che ci hai riflettuto, quindi sentiamo.»
«Opto per la seconda. Scommetto che da bambina venisse trattata in modo analogo, molto probabilmente dal padre. Per questo è stata attratta in primo luogo dal nostro uomo. Problemi irrisolti con il padre. È come la storia delle falene con la luce. Quando il sequestratore è entrato nella sua vita, per lei è finita.»
La porta si aprì all’improvviso e ci girammo in tempo per vedere Sumati Chaterrjee precipitarsi nella stanza con un laptop. Aveva il volto arrossato e il respiro affannoso. Qualsiasi cosa l’avesse turbata, era tanto urgente da averla indotta a fare di corsa le scale anziché prendere l’ascensore. Mi individuò e mi raggiunse.
«Ho un nome per lei» annunciò. «Tesla.»