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Il rombo dei motori dell’Eurocopter EC145 mi stordì. Anche con le cuffie in testa era assordante. Il mio corpo vibrava in sincronia con le pale, scosso da un tremito sordo, profondo. Le nubi erano basse, scure e l’elicottero le sfiorò, sobbalzando e beccheggiando nelle zone di turbolenza. Ai comandi c’era un pilota della polizia, perciò la comodità dei passeggeri era l’ultima delle sue priorità. Gli era stato detto di andare da A a B nel minor tempo possibile ed era quello che stava facendo. Volava veloce e deciso, come se fosse diretto in una zona di guerra a recuperare dei feriti. Sembrava di essere su un ottovolante, ma molto più divertente. Incontrammo l’ennesima turbolenza e Templeton alzò gli occhi al cielo. Aveva le nocche bianche da quanto si teneva stretta alle cinture di sicurezza.
L’elicottero arrivò lento e basso sull’ospedale, con il muso all’ingiù e la coda in alto. Il pilota lo raddrizzò, restò per qualche secondo sospeso e atterrò delicatamente sull’erba. Il rombo dei motori scemò e le pale si fermarono, ma impiegai alcuni istanti a capire che quello che udivo era silenzio. Bristol era a centocinquanta chilometri circa da Londra in linea d’aria. Dal decollo all’atterraggio avevamo impiegato quarantacinque minuti, metà del tempo necessario a un’auto veloce con un traffico scorrevole e i lampeggianti accesi.
Il Glenside Hospital era nato come manicomio. Durante la guerra era stato trasformato in ospedale militare e oggi faceva parte della University of the West of England. In mezzo agli edifici nuovi si scorgevano ancora le vecchie strutture psichiatriche. Era un luogo ricco di suggestioni gotiche e popolato dalle ombre della pazzia.
Il museo aveva sede nella chiesa. Era già chiuso da molto, ma Hatcher aveva preannunciato il nostro arrivo. Templeton bussò alla pesante porta di quercia. Era una sera buia, gelida e avrei voluto più che mai trovarmi in California. Battei i piedi per terra per riattivare la circolazione e agitai le braccia nel vano tentativo di scaldarmi. Templeton pareva ignara del freddo o se non era così, non mostrava di patirlo.
Udimmo il rumore di una chiave nella toppa e poco dopo la porta si spalancò. Elizabeth Dryden si presentò e ci fece entrare. Era ben oltre l’età della pensione, avrà avuto più di settant’anni, forse anche ottanta. Era esile come un uccellino e si muoveva al rallentatore come se soffrisse d’artrite. Portava i capelli bianchi raccolti in uno chignon rigoroso e indossava un completo di tweed. Al collo aveva un paio di occhiali con una catenella e parlava con un accento ricercato da annunciatore della BBC degli anni Cinquanta.
L’edificio conservava ancora l’odore di una chiesa: sembrava che le pietre avessero trattenuto il profumo del legno vecchio e dell’incenso misto al fumo di candela. Le panche non c’erano più, sostituite da pannelli e teche che illustravano la storia dell’assistenza psichiatrica dalla fine del milleottocento in poi.
«Fino a poco tempo fa la polizia non era particolarmente interessata al furto» affermò miss Dryden. «Perché adesso sì?»
«Riteniamo che possa essere legato a un caso» spiegai.
«Un caso importante, a giudicare dal fatto che siete arrivati in elicottero da Londra. Quando è avvenuto il furto, ci è voluto quasi un giorno perché ci mandassero un poliziotto in macchina. Il suo accento: lei è americano.»
«Originario della California del nord.»
«E adesso lavora per la Metropolitan Police.»
«Faccio il consulente.»
«Tutto ciò ha a che vedere con quelle donne lobotomizzate, vero? Pensate che abbiano usato il nostro orbitoclasto su di loro?»
«Esatto» confermai.
«Vi aiuterò in ogni modo possibile, ovviamente.»
«Ci può mostrare la vetrina da cui è stato rubato?»
«Certo, da questa parte.»
Miss Dryden ci condusse attraverso la navata nel transetto sud, con le chiavi che tintinnavano a ogni passo. Si fermò davanti a un pannello che ritraeva un uomo legato a un tavolo. Robuste cinghie di cuoio gli tenevano ferme le braccia e le gambe, un’altra gli immobilizzava la testa, reclinata il più possibile, in modo da facilitare l’accesso alle orbite. C’era anche un uomo con un camice bianco e una mascherina per dare l’illusione che si trattasse di una procedura medica. Una piccola teca conteneva gli strumenti usati. L’orbitoclasto aveva il posto d’onore al centro.
Miss Dryden vide dove stavo guardando. «Naturalmente non è quello originale.»
«Posso vederlo per favore?»
«Sicuro.»
Aprì la teca e sollevò il coperchio. Prese lo strumento con entrambe le mani e me lo porse come se fosse un manufatto religioso.
Era più leggero di quanto m’aspettassi eppure mi sembrò pesante. Percepivo tutta la sua storia, tutte le atrocità commesse con quell’arnese. Il metallo era annerito e scabro per gli anni. Lo studiai con cura, guardandolo da tutte le parti, poi lo passai a Templeton. Non voleva toccarlo. Lo esaminò in fretta e lo restituì, quasi a liberarsene quanto prima. Miss Dryden lo rimise nella teca armeggiando un po’, spostandolo di qua e di là fino a collocarlo nella stessa posizione di prima.
«Com’è andata?» domandai.
«Il ladro si è avvicinato spudoratamente alla vetrina, ha spaccato il vetro, afferrato l’orbitoclasto ed è scappato. È accaduto tutto velocemente.»
«Mi può dire qualcosa di quell’uomo? Qualsiasi cosa?»
Il suo viso si contorse, perplesso. «Temo abbiate preso un granchio. Non è stato un uomo a rubarlo, ma una donna.»
Templeton mi guardò e nei suoi occhi colsi un lampo d’eccitazione. Stavamo pensando la stessa cosa: la partner sottomessa.
«Ho notato le telecamere di sicurezza quando siamo entrati» disse. «Non penso l’abbiate filmata.»
«Invece sì. Vuol vedere il nastro?»
«Sarebbe fantastico» rispose Templeton.
Miss Dryden ci portò in una piccola stanza che un tempo era l’ufficio del parroco. Era di legno scuro, con intagli, decori e ornamenti vistosi. Dipinti religiosi sbiaditi alle pareti e un grande crocifisso dietro il tavolo. Molto probabilmente non era stato toccato niente da quando era una chiesa. L’anziana signora sedette al computer e recuperò il filmato del sistema di sorveglianza.
«Mi dispiace, abbiamo solo due telecamere» spiegò. «Di solito conserviamo le riprese per settantadue ore, ma queste le abbiamo archiviate per l’assicurazione.» Lanciò un’occhiata a Templeton e aggiunse: «Le abbiamo tenute anche nel caso la polizia avesse deciso di considerarlo un furto vero e proprio anziché lo scherzo di uno studente».
«Vorremmo vedere quello che ha» rispose lei.
Il filmato era sgranato, in bianco e nero. Le telecamere erano vecchie, con una bassa definizione delle immagini, perciò assomigliava a un film muto. C’erano due spezzoni brevi, nessuno dei quali durava più di venti secondi.
Nel primo la ladra risaliva la navata con la testa girata a sinistra, dalla parte opposta alla telecamera. Indossava un cappello e aveva il colletto della giacca sollevato. Portava un paio di occhiali neri con la montatura spessa. Forse le servivano, forse facevano parte del travestimento.
Il secondo era di una telecamera situata nel transetto nord. Non mostrava in realtà la ladra, ma quello che faceva. La scena si svolgeva proprio come l’aveva descritta miss Dryden: la donna si avvicinava alla vetrina, spaccava il coperchio, afferrava l’orbitoclasto e scappava.
«Sapeva dov’erano le telecamere» osservai.
«Aveva già perlustrato il luogo o lo aveva fatto il suo partner» disse Templeton.
«Può rimettere il primo filmato, per favore?»
«Certo» rispose la donna.
Lo guardai attentamente, cercando qualsiasi cosa mi aiutasse a farmi un’idea più chiara della ladra. Dryden me lo mostrò per la terza volta e io mi avvicinai di più allo schermo. Le dissi di bloccarlo quando la ladra raggiungeva una colonna: in quel modo riuscivo a stimarne approssimativamente corporatura e altezza.
«Non quadra» affermai.
«Cosa?» domandò Templeton.
«O stiamo guardando una donna alta un metro e ottanta con una corporatura più robusta della media oppure si tratta di un uomo di corporatura media, sul metro e ottanta con i capelli castani. Io saprei su cosa scommettere.»