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Avevo promesso a Hatcher un profilo per le nove e non avrei tenuto fede all’impegno. Di solito, dormendo mi schiarivo le idee, ma non stavolta. Quel caso era più nebuloso che mai. Avevo qualche idea, nulla tuttavia che valesse la pena d’essere approfondito. Il profilo avrebbe influenzato il corso delle indagini e se avessi commesso un errore, a pagare sarebbe stata una donna innocente. Un profilo sbagliato era il miglior modo per mandare a puttane un caso.
E quel caso non era paragonabile ad altri che avessi seguito. Tanto per cominciare di solito c’erano un paio di cadaveri su cui lavorare. Questo aspetto mi turbava in particolare: per effettuare una lobotomia ci volevano tempo e competenze. Sarebbe stato più facile uccidere la vittima. Non aveva senso, non corrispondeva con quello che sapevo del criminale. Quell’uomo era attento e metodico, non faceva niente senza riflettere, quindi perché prendersi la briga di effettuare una lobotomia? Inoltre godeva nel torturare le vittime, traeva piacere nel vederle urlare e soffrire. Dopo la lobotomia ogni divertimento cessava: basta urla, basta sofferenza. Quindi in quale fase la effettuava? Qual era il fattore scatenante?
Un’altra questione che mi tormentava era il modo contraddittorio in cui trattava le vittime. Da un lato le torturava, dall’altro le accudiva. Era possibile che lo facesse per prolungare le torture, ma non era un’ipotesi molto plausibile.
Feci una rapida doccia, mi asciugai e mi vestii. I jeans del giorno prima potevano ancora andare, felpa e maglietta no. La T-shirt di oggi raffigurava i Nirvana e la felpa era nera. Mi ravviai i capelli con la mano. Non avevo mai capito se uno dei miei antenati avesse scelto Winter come cognome perché quel famoso gene anomalo ci faceva incanutire precocemente o se fosse una delle tante combinazioni che si verificano a livello cosmico. Non la definirei coincidenza, perché non credo nelle coincidenze, nella fortuna o nel destino. Credo che nell’universo pressoché infinito tutto sia possibile.
Come il fatto che un ragazzo di vent’anni di nome Winter finisca per avere i capelli bianchi. A pensarci bene, le varie combinazioni che si sviluppano nel cosmo non sono poi tanto sorprendenti. Lo è invece il fatto che due fidanzatini ai tempi del liceo, separati dagli eventi e da mezzo secolo di vita, si ritrovino per caso in un luogo sperduto di vacanza e riallaccino il legame spezzato tanti anni prima.
Ordinai una colazione all’inglese al servizio in camera, perché Dio solo sapeva quando avrei mangiato di nuovo. La buttai giù con un caffè e ne bevvi un altro sul balcone. Sotto di me la città si stava svegliando. Accesi una sigaretta e feci un tiro. Il cielo era di un azzurro intenso, luminoso, che mi ricordò le mattine d’inverno in Virginia. L’assenza di nubi significava che avrebbe fatto ancor più freddo del giorno prima: la colonnina di mercurio probabilmente non avrebbe superato i meno cinque. La dose mattutina di caffeina e nicotina mi rimise in moto e quando rientrai, ero pronto ad affrontare la giornata.
Hatcher mi aveva spedito per mail una cartella contenente le foto delle vittime “pre” e “post” rapimento. Iniziai da quelle di Patricia Maynard, perché era la vittima che conoscevo meglio. La prima era una tipica immagine che la ritraeva in un momento felice. Quella foto era stata fornita dai familiari, ed era comprensibile che volessero ricordarla serena e gioiosa. In verità, Patricia Maynard era un essere umano come tutti. Aveva giornate belle e brutte, a volte era contenta, a volte triste, a volte ancora arrabbiata. In certi casi era una piacevole compagnia, in altri un peso. Viveva, in poche parole, gli alti e bassi della vita.
Quella foto la ritraeva in uno dei suoi momenti migliori. Era stata scattata in un ristorante; lei sorrideva come se non avesse alcun pensiero al mondo. Niente lasciava intendere che si sarebbe imbattuta nel suo peggiore incubo e che la sua vita, in sostanza, sarebbe finita.
Era stata ritagliata per mettere in evidenza il volto, perciò era difficile capire in che occasione fosse stata fatta. Forse un compleanno, suo o di qualcun altro. Era comunque una festa. Non scatti foto al ristorante se non hai motivo di ricordare l’evento.
Era una moretta dagli occhi castani, bella. Non uno schianto da lasciarti senza fiato come la Templeton, ma sicuramente attirava l’attenzione degli uomini. In forma, sana, indossava una camicetta con i primi due bottoni sganciati che lasciavano intravedere maliziosamente il seno e un lembo di pizzo. Patricia Maynard era una donna felice, sicura di sé, attraente, che aveva tutta la vita davanti.
L’altra era stata scattata dal fotografo della polizia e non trasmetteva né gioia né serenità. Era un’immagine cruda, brutale: della donna attraente e sicura non c’era più traccia. Aveva gli occhi rossi, gonfi e semi chiusi, come se fosse reduce da quindici round sul ring. Il volto flaccido ricordava quello dei malati di ictus.
Esaminai le foto “pre” e “post” rapimento delle altre tre donne, i ritratti gioiosi e sereni e le segnaletiche. Sarah Flight, Margaret Smith, Caroline Brant. Disposi le quattro foto della polizia in due file ordinate, Sarah Flight, Margaret Smith in alto, Caroline Brant e Patricia Maynard in basso. Un fremito d’eccitazione mi fece drizzare i capelli in testa. Lì in fila, con le teste rasate e gli occhi gonfi, avrebbero potuto essere la stessa persona.
Aprii un’altra schermata, disposi le foto “pre” nella stessa sequenza di quelle “post” e notai subito la somiglianza. Prima mi era sfuggita perché due vittime avevano i capelli tinti. Hatcher rispose al secondo squillo.
«Ti ho mandato un’auto» disse. «Sarà lì tra pochi minuti.»
«Ottimo. Mi serve, ma non vengo da te. Non stamattina, ad ogni modo.»
«E il profilo?»
«Ho bisogno di lavorarci ancora un po’.»
«Di che diavolo parli, Winter? Hai detto che sarebbe stato pronto stamattina.»
«Sta’ zitto e ascolta un istante. Non ho il profilo del maniaco, ma ho quello della prossima vittima. Hai una penna?»
Sentii un fruscio di carta e un rumore di plastica, poi Hatcher tornò al telefono. «Okay, spara.»