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Templeton fece strada verso un tavolo vicino al banco. Indossava un paio di jeans stretti e aderenti nei punti giusti, come quelli di prima. Si tolse la giacca e si sedette. Il maglione di lana nera tentava in ogni modo di nasconderle il corpo, ma invano: avrebbe potuto indossare un sacco di juta ed essere ugualmente sexy. Aveva i capelli ancora umidi dopo la doccia. Il profumo di shampoo alla mela mi ricordò l’estate.

Mise la mano in tasca, estrasse una banconota da dieci sterline e la sbatté sul tavolo con una finta aria da indignata.

«Come diamine facevi a sapere quali auto possiede Donald Cole?» chiese.

«Quando si esclude l’impossibile, tutto ciò che rimane, per quanto improbabile, deve essere vero.»

Mi lanciò un’occhiata severa. «Come facevi a saperlo, Winter?»

«Aveva le fotografie delle sue macchine in ufficio.»

«In ufficio aveva molte fotografie.»

«Certo» convenni. «C’era una foto della sua barca, una della sua villa nel Mediterraneo, varie immagini di cavalli da corsa. Donald Cole non ha un titolo: niente diplomi, niente dottorati, niente certificati. Visti i trascorsi, dubito che nel prossimo futuro premi Nobel e presidenti americani si metteranno in coda per farsi fotografare con lui. Quelle fotografie sono il surrogato di attestati e onorificenze. Cole misura il proprio successo in base a status symbol e vuole esibirli. Hai notato le fotografie della famiglia?»

«Sì. Erano sulla scrivania.»

«Hai notato che erano rivolte verso di lui? Erano difficili da vedere.»

«Sarà un convinto sostenitore del feng shui. Che c’è di strano?»

«È contento che tutti vedano i suoi status symbol ma non la sua famiglia, nei confronti della quale è protettivo. Vuole tenerla vicina a sé, al sicuro.»

«Quale padre non lo vorrebbe?»

«Non esserne così sicura. Prendi il mio: all’apparenza era il papà ideale, ma se grattavi sotto la superficie scoprivi lo psicopatico nascosto. Non avrebbe esitato a uccidere me o mia madre se fosse servito al suo scopo.»

«Mi dispiace, non ci avevo pensato.»

Lasciai perdere le sue scuse. «Il punto è che Donald Cole si sente responsabile del rapimento della figlia. È tormentato dal senso di colpa. Ha una valanga di soldi, non si fida della polizia e proviene da un mondo in cui prima picchi e poi fai domande. Non è una buona combinazione. Tenetelo d’occhio. Se decidesse di farsi giustizia da sé, sarebbe una bella rogna per voi. Per non parlare del fatto che metterebbe Rachel in una situazione ancor più pericolosa.»

«In che modo lei potrebbe risultare ancor più in pericolo?»

«Questi maniaci tengono le loro vittime in media per tre mesi. Se Cole facesse qualcosa di stupido, come riproporre la ricompensa, il nostro uomo potrebbe decidere che Rachel non valga il rischio. Potrebbe accelerare i tempi, condensare tre mesi di piacere in un paio di giorni, lobotomizzarla e scaricarla. Game over. Nei casi in cui le vittime vengono tenute in vita, le cose possono sempre peggiorare, ricordalo.»

«Giustissimo.» Templeton indicò con un cenno la banconota da dieci sterline sul tavolo. «Sto morendo di sete.»

«Jack Daniel’s e Coca?»

«Come fai a saperlo?» Scosse la testa. «In realtà non ho bisogno di una risposta. Ho solo bisogno di bere.»

Mi alzai, presi la banconota e andai al banco. La barista era la stessa del giorno precedente. Con lei avevo scambiato qualche parola, scoprendo che era polacca, si chiamava Irena ed era single. Portai i bicchieri al tavolo, porsi a Templeton il suo e versai ciò che restava del primo drink nel secondo bicchiere. Mi sedetti, feci tintinnare i cubetti di ghiaccio e bevvi un sorso. Quanto avrei voluto che si potesse ancora fumare nei locali. Quel divieto era proprio una noia. Alcol e nicotina erano fatti per stare insieme, come le fragole e la panna, solo non altrettanto sani.

«Il Sezionatore ha preso una multa per divieto di sosta» annunciò Templeton. «Ha una Porsche.»

«Ma…»

«I saccenti non piacciono a nessuno.»

Inarcai un sopracciglio e lei sospirò.

«Secondo la motorizzazione ha una Ford Mondeo argento di cinque anni. Ha scambiato le targhe, perciò non c’è un nome. Ma questo lo sapevi già. Allora, perché hai lasciato l’FBI, Winter?»

Mi stava osservando con quegli occhi azzurri penetranti e non avrebbe mollato. Bevvi un sorso del drink.

«Prima hai evitato la domanda perché non ci conoscevamo abbastanza bene» proseguì.

«Invece adesso ci conosciamo benissimo.»

«Oggi abbiamo passato insieme parecchio tempo di qualità, più di quello che condivide in genere una coppia sposata. Ad ogni modo, io ti ho raccontato perché sono entrata in polizia. Do ut des, Winter. Mi sembra equo.»

Risentii allora la voce lontana di mio padre che mi bisbigliava quelle tre parole nella sua parlata californiana strascicata. Noi siamo uguali. La risposta più facile mi parve l’alternativa migliore. Posai con cura il bicchiere sul tavolo.

«I superiori non approvavano alcuni dei miei metodi. Ritenevano che corressi rischi inutili. Mi ero fatto la reputazione d’essere un cane sciolto e in un’organizzazione come l’FBI, in cui la squadra è tutto, i cani sciolti non vengono tollerati a lungo. Me ne sono andato prima che me lo chiedessero.»

«Correvi davvero rischi inutili?»

«Facevo quanto necessario per svolgere il mio lavoro, come ora.»

«Questo non risponde alla domanda.»

«Risolvevo i casi,» dissi «prendevo i cattivi. Come, non avrebbe dovuto essere importante.»

«Invece sì» replicò lei. «Se una forza di polizia non ha regole, diventa una banda di vigilanti. Di qui a linciare qualcuno il passo è breve.»

«Immagino che tu segua sempre le regole. Ti aspetti che creda che tu non abbia mai chiuso un occhio, o anche due, per portare a termine un lavoro?»

Templeton esitò. Fece per parlare ma si fermò.

«Avrai sicuramente chiuso un occhio in qualche occasione» proseguii. «Non c’è poliziotto che non l’abbia fatto, o almeno non c’è poliziotto in gamba che non l’abbia fatto. Non dico che non devono esistere delle regole, ma solo che le regole non possono essere così rigide da impedirci di fare il nostro lavoro.»

«E chi decide dove tracciare la linea?»

«È un problema di coscienza e di buon senso. E per la cronaca, non ho ripensamenti sulle decisioni prese, né rimpianti. Dormo sonni tranquilli.»

«Bugiardo. Non c’è poliziotto che non avrebbe voluto agire in un altro modo in un caso o prendere una decisione diversa.»

Non risposi; mi rivolse un sorriso d’intesa e prese il suo drink. «C’è qualcosa in questo caso che ti tormenta. Cos’è?»

«Chi dice che qualcosa mi tormenti?»

«Il Sezionatore e la sua amica sono ancora là fuori. Finché non li prenderemo, ci sarà sempre qualcosa in questo caso che ti tormenterà. Sei fatto così, perciò confessa: cosa ti tormenta?»

«La lobotomizzazione delle vittime.»

«Nel briefing hai detto che le lobotomie sono un compromesso. Il partner dominante vuole uccidere la vittima, quello sottomesso la vuole viva. A mio parere è logico.»

«È logico,» convenni «ma è tutto il giorno che ci penso, e più ci penso, più mi convinco che mi sia sfuggito qualcosa.»

«Non avrai analizzato troppo la situazione?»

«No. La lobotomia è la chiave per risolvere il caso.»

«Allora cosa pensi?»

«Questo è il problema. In questa fase sono a corto di idee.»

«Cosa? Neanche una? Neanche mezza o un accenno?»

«Neanche quello» ammisi.

«Allora quel tuo incredibile cervello non sta covando niente?»

Scossi la testa e sospirai. «Niente, mi spiace.»

«Mi puoi ripetere qual era il QI di Leonardo?»

«Innanzitutto non te l’ho mai detto, perciò come faccio a ripetertelo?» Templeton inarcò le sopracciglia e mi fissò con il suo sguardo da poliziotta. «Duecentoventi» dissi.

«Ed era più in gamba di te» commentò.

«Molto di più» risposi. «Ma ricorda: è solo un valore orientativo.»

Lei sorseggiò il drink e mi sorrise al di sopra del bicchiere. «È una cosa che ti secca maledettamente, vero?»