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Prima Rachel aveva avuto paura, ma non era stato niente in confronto a quello che stava provando ora. Era assolutamente terrorizzata, in preda a un orrore che l’aveva trasformata in una bambina. Si abbracciò, rintanata nell’angolo, e si nascose sotto le coperte esprimendo desideri, pregando, venendo a patti con se stessa.
Adam sarebbe tornato appena trovato la punizione adatta, ma cosa significava? Qual era la punizione adatta per aver tentato la fuga? Era quello il momento in cui le avrebbe distrutto il cervello? Si immaginò il ronzio della sega e il puzzo d’osso bruciato, vide Adam che le tagliava il cervello in modo talmente nitido che le sembrò quasi che stesse già accadendo. Forse l’avrebbe drogata di nuovo, come aveva fatto quando aveva usato il coltello.
Non riuscì a fermare in tempo quel pensiero e più cercava di scacciarlo, più prendeva forza. I farmaci avevano amplificato il dolore al punto che, quando l’aveva tagliata, le era sembrato che un lanciafiamme le bruciasse le terminazioni nervose. Quanto sarebbe stato atroce il dolore se le avesse segato il cranio? Adam sapeva adattare il dosaggio per intensificare il dolore?
Le luci si accesero e lei si ritirò ancora di più nell’angolo. Fissò la telecamera più vicina con gli occhi sgranati, in preda al panico. Tremava tutta e batteva i denti.
Spostò lo sguardo da una telecamera all’altra, da un altoparlante all’altro, muovendo la testa in senso antiorario. Le luci erano accese da un minuto, ma il silenzio continuava. Era un silenzio snervante, ma ancor peggio era attendere di conoscere la punizione. Adam amava fare giochetti e la cosa più spaventosa era che funzionavano. Avrebbe voluto urlargli di lasciarla in pace, ma si costrinse a stare zitta perché era proprio la reazione che lui voleva.
Lo sportello si aprì e comparve un vassoio. Un odore di cibo si sparse nel seminterrato, rivoltandole lo stomaco. Rachel scostò le coperte, si mise traballante in piedi e si avvicinò. Come prima, c’era un piatto di porcellana con il coprivivande d’argento. Il bicchiere di cristallo, le posate d’argento e un tovagliolo bianco piegato con cura.
Guardò il bicchiere e le vennero in mente altri foschi pensieri. Avrebbe potuto fracassarlo e usare un frammento per tagliarsi l’arteria femorale. Sarebbe stato il modo più rapido ed efficace di uccidersi. Si sarebbe dissanguata in un lampo. Il desiderio era così forte che quando si guardò la gamba si aspettò quasi di vedere il sangue impregnare i pantaloni grigi della tuta. Scacciò l’idea e si sforzò di tornare in sé. Si chinò e si sedette a gambe incrociate appoggiando la schiena al muro.
«Sei tu, Eve?»
Ci fu un lungo silenzio, poi Eve rispose come al suo solito in un sommesso sussurro. «Mi dispiace. Mi ha costretta a farlo.»
«Fare cosa, Eve?»
«Lasciare lo sportello aperto.»
Rachel chiuse gli occhi ed ebbe una morsa allo stomaco. Avrebbe dovuto capirlo. Adam aveva voluto che fuggisse per eccitarsi a darle la caccia con il pungolo per il bestiame.
«Mi ha detto che mi avrebbe fatto del male se non avessi obbedito.»
«È tutto a posto, Eve. Non avevi scelta.»
«Avrei potuto tenergli testa, dirgli di no.»
«E lui ti avrebbe fatto del male.»
Seguì un altro lungo silenzio. Rachel avrebbe voluto spezzarlo ma si trattenne.
«Hanno detto che ha ucciso una di quelle ragazze» disse infine Eve. Sembrava sul punto di scoppiare a piangere.
«Quale ragazza?»
«La prima. Sarah. Era così bella. Si lasciava truccare.»
Sarah.
Rachel memorizzò il nome. Una volta Sarah era come lei. Aveva una vita, sogni e speranze. E ora era morta. Però non aveva senso. Adam non aveva assolutamente nulla di buono, ma non era un assassino. Le sue colleghe in ufficio ne avevano parlato tanto. Rapiva e torturava le sue vittime, poi le lobotomizzava e le liberava. Lo ricordava perché tutti sostenevano che sarebbe stato meglio se fossero morte.
Il suicidio era da scartare, più probabilmente si era trattato di un’eutanasia. Forse un amico o un parente aveva concluso quello che Adam aveva iniziato. O forse Sarah era morta per le lesioni, a distanza di tempo.
Rabbrividì all’idea. Aveva visto quello di cui Adam era capace e si rifiutò di considerare fino a che punto la situazione si sarebbe potuta aggravare. Per sopravvivere doveva prendere le cose come venivano. Il futuro era troppo tetro perché potesse pensarci e se avesse iniziato a cercare risposte, avrebbe anche potuto rinunciare da subito a lottare.
«Come fai a sapere che è morta, Eve?»
«Lo hanno detto al telegiornale.»
«Sai com’è morta?»
«Non voglio parlarne.»
«Va bene, Eve, possiamo parlare d’altro.» Rachel tacque cercando qualcosa da dire. «Sono contenta che tu sia tornata. Mi piace conversare con te.»
«Davvero?»
«L’altra volta dicevo sul serio. Vorrei proprio che fossimo amiche.»
Il silenzio fu lungo, al punto che credette di nuovo di essersi spinta troppo in là.
«Anche me piacerebbe» rispose titubante Eve. «Un giorno potrei truccarti?»
Rachel sorrise tra sé. Era quello che sperava. I muri stavano crollando e al loro posto sorgevano ponti.
«Certamente, Eve, ne sarei felice.»
«La tua cena si sta raffreddando.»
Sollevò il portavivande. Anelli di pasta, direttamente dalla scatola. Il vapore salì dal piatto e lo stomaco le si torse quando sentì l’odore. Al pensiero di quello che Adam le avrebbe fatto aveva perso ogni appetito. Poi le venne in mente una domanda. Non sapeva se farla o tenere la bocca chiusa; pensò “al diavolo tutto quanto” e si buttò.
«Il cibo è drogato, Eve?»
«Mi dispiace.»
«Non ti preoccupare.»
Prese la forchetta e iniziò a mangiare.