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Il bar del Cosmopolitan Hotel era raffinato e assolutamente anonimo: tanto legno lucido, tante cromature e tanta pelle morbida. Le luci posizionate ad arte creavano strane ombre e si riflettevano sulle foglie delle piante finte. In sottofondo si udivano le versioni computerizzate delle classiche melodie di Natale. Delle poche decorazioni appese qua e là si sarebbe anche potuto fare a meno. In un angolo c’era un pianoforte. I cartelli affissi dietro il banco annunciavano che il martedì c’era la serata jazz.

Ai tavoli erano seduti cinque o sei clienti, due coppie e due single, uomini e donne d’affari rimasti probabilmente bloccati lì per una notte o due. Ridevano, chiacchieravano e bevevano molto. La bionda dietro il banco era carina, spumeggiante, tutta sorrisi. Poco più che ventenne parlava con un accento dell’Europa dell’est. Ordinai un whisky e mi sedetti al tavolo più vicino. Feci tintinnare i cubetti di ghiaccio nel bicchiere e bevvi un sorso. L’alcol mi bruciò la gola.

Una donna sola continuava a guardare furtiva nella mia direzione. Era là quand’ero arrivato e occupava il tavolo da cui si godeva la visuale migliore della sala. Bevvi il whisky controllandola con la coda dell’occhio, in attesa che facesse una mossa. Aspettò altri cinque minuti, poi si alzò e si avvicinò.

Era un paio di centimetri più bassa di me, sul metro e settantadue senza tacchi, e si muoveva con la grazia naturale, distaccata di una ballerina. Era un vero schianto. Capelli biondi lunghi raccolti in una coda e gli occhi più azzurri che avessi mai visto. Aveva un corpo da favola: non sapevo se grazie ai geni o a un’attività fisica intensa e regolare, ma non m’importava. Ciò che contava era il risultato finale, decisamente spettacolare.

Posò il bicchiere sul tavolo, scostò la sedia di fronte, si sedette e si mise comoda. Piegò leggermente la testa a sinistra e mi squadrò senza mascherare affatto il gesto. Iniziò dalla testa e arrivò fino all’altezza del tavolo, spostando gli occhi da sinistra a destra, come se leggesse.

«Che cosa stai pensando?» domandò.

«Che non sei una donna d’affari.»

«E quindi?»

«Quindi mi chiedo perché diavolo hai scelto di fare la poliziotta.»

A quel punto sorrise. «Mio padre era un poliziotto, come suo padre e suo nonno. Pensava di avere un figlio maschio.»

«Immagino abbia superato la delusione» osservai.

«È molto fiero di me.» Mi guardò di nuovo. «Non sei come mi aspettavo.»

«In che senso?»

«Nel tuo dossier c’è scritto che hai trentadue anni.»

«C’è un mio dossier?»

Annuì. «C’è.»

«Sembri più vecchio.» proseguì «Saranno i capelli. Nella foto non erano bianchi.»

«Sono le preoccupazioni e lo stress» replicai.

«Se ti tagliassi i capelli e ti radessi, ne guadagneresti.»

«E immagino dovrei anche portare un vestito e gli occhiali da sole. Quando diventi un federale, lo resti per sempre, giusto?»

«Più o meno.»

«Hatcher ti ha detto di farmi da baby-sitter?»

Ebbe una lieve esitazione. Rivolse lo sguardo a sinistra, segno che stava attivando quella parte del cervello che elaborava menzogne e mezze verità. «Non esattamente» rispose.

«Allora perché sei qui?»

Mi fissò di nuovo con i suoi occhi azzurri. «Per curiosità. Ho sentito parlare molto di te.» Sorrise sarcastica. «Jefferson Winter, il famoso profiler americano.»

«Come facevi a sapere che ero qui?»

«Hatcher mi ha raccontato qualcosa del tuo periodo a Quantico. Così ho concluso che il bar dell’albergo in cui alloggi fosse un buon posto per iniziare a cercare.»

«Ottima conclusione.»

«Non vuoi sapere come mi chiamo?»

«Lo so già.»

Lei inarcò un sopracciglio.

«Sei il sergente Sophie Templeton» dissi.

Si mostrò sorpresa ma si riprese in fretta, tornando impassibile e padrona di sé. Fu un cambiamento tanto rapido e istantaneo che mi sembrò quasi non ci fosse stato. Templeton era chiaramente una donna che non si lasciava spiazzare facilmente. Hatcher l’aveva menzionata un paio di volte, perciò non mi era stato difficile fare due più due.

Indicai il suo bicchiere semivuoto. «Posso offrirtene un altro?»

Lei scosse la testa. «No, grazie. Domani mi aspetta una giornata impegnativa.»

«Posso farti cambiare idea?»

«Ci puoi provare, ma devo avvertirti che sono arrivata prima in tutti i corsi di autodifesa.»

Era un commento che apriva scenari piuttosto interessanti. «Non intendevo essere brutale.»

«E io stavo scherzando.»

Sorrisi, e lei ricambiò. Era un bel sorriso, che le illuminò anche gli occhi.

«Sei appena arrivata» osservai.

«È una sera infrasettimanale. Sarei dovuta andare a casa ore fa. Domani sarà una giornata faticosa.» Alzò gli occhi al cielo. «Non che sia una novità. Le giornate sono tutte faticose, soprattutto ora.»

«Lo prenderemo.»

«Ne sei sicuro.»

«Totalmente. Non ho dubbi.»

«Sei davvero in gamba come dice Hatcher?»

Presi il bicchiere e bevvi un sorso. «Questo è il vero motivo per cui sei qui, giusto? Allora com’è andata? Avete tirato a sorte in ufficio e hai perso?»

Templeton bevve il suo drink: ne assaggiò un piccolo sorso e si leccò quasi impercettibilmente le labbra. Jack Daniel’s e Coca, a giudicare dall’odore e dal colore. «Non sono qui per studiarti, Winter.»

Sollevai un sopracciglio senza dire nulla.

«D’accordo, sono qui per studiarti, ma come ho detto prima, lo faccio per mia curiosità. Non devo riferire a nessuno.» Tacque e mi fissò con i suoi grandi occhi azzurri. «Ottima tecnica diversiva, a proposito. Eviti la domanda e mi metti sulle difensive.»

Scrollai le spalle e sorrisi. Mi aveva beccato.

«Allora» disse. «Torniamo alla domanda.»

«Non posso rispondere.»

«Non puoi o non vuoi?»

«Non posso. È una domanda trabocchetto; non so cosa pensi di me Hatcher.»

«Dice che sei il miglior profiler sulla piazza.»

«In tal caso ha ragione. Sono il migliore.»

Templeton scoppiò a ridere. «Alla faccia della modestia.»

«La modestia non c’entra. Hai visto il mio curriculum. I fatti parlano da sé.»

«Come sai che ho visto il tuo curriculum?»

Sollevai di nuovo un sopracciglio senza far commenti. Stavolta fu lei a scrollare le spalle e a sorridere. Mi tese la mano e io gliela strinsi. Era morbida e calda, aveva una stretta decisa e nel contempo femminile, il che era un bene. Non sentiva l’esigenza di ipercompensare il suo ruolo.

Sfoderò di nuovo quel magnifico sorriso. «È un piacere conoscerti, Winter. Sarà interessante lavorare con te» esclamò.