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Mi sedetti al piano e provai alcune rapide scale in do maggiore. Una nel registro grave, una in quello centrale e una in quello acuto. I tasti erano pesanti, lenti, non rispondevano affatto come quelli del mio Steinway, ma almeno il pianoforte era accordato. E il fatto che avesse un timbro abbastanza buono era un pregio.
La barista era parsa sollevata quando le avevo proposto di spegnere la musica e di lasciarmi suonare. Aveva accettato all’istante, senza neanche informarsi sulle mie capacità. Non che gliene importasse, comunque: qualsiasi cosa era preferibile a quell’insulsa musica natalizia computerizzata. Dieci minuti di quella merda e mi veniva da cacciarmi dei bastoncini appuntiti nelle orecchie. Come lei riuscisse a sopportarla per un intero turno, era un mistero.
Andai subito al secondo movimento del concerto per pianoforte n. 21 di Mozart. Alla terza frase Londra e il bar erano svaniti, l’oppressione al petto diminuita. Contava solo la musica. Esisteva solo la musica.
A occhi chiusi trovai istintivamente la nota successiva, la frase seguente. Le dita non mi ingannarono. Non era uno dei pezzi mozartiani di maggior effetto, ma non per questo era facile da eseguire. La musica aveva in sé uno slancio che ti invitava a suonare più veloce, ma se lo facevi ne uccidevi lo spirito. Il trucco era suonare lentamente, con naturalezza. Raggiunsi la frase finale, l’ultima nota, restai fermo per un attimo, sempre a occhi chiusi, e attesi il silenzio.
«Che meraviglia.»
Templeton era in piedi accanto allo sgabello. Aveva una strana espressione sul volto, difficile da interpretare. Era in ritardo di cinque minuti, il che era accettabile viste le circostanze: arrivare in anticipo non sarebbe stato bello, arrivare con un ritardo maggiore, sgarbato. Ero già a metà del primo whisky e stavo meditando di ordinarne un altro.
«Parlo sul serio» disse. «Suoni molto bene. Dove hai imparato?»
«Mia madre era insegnante di musica. Mi ha insegnato lei a suonare. E ho studiato musica al college.»
«Pensavo fossi laureato in psicologia criminale.»
«È così. Il diploma in musica l’ho preso nel tempo libero.»
«In genere le persone si divertono nel tempo libero.»
Scoppiai a ridere, ricordandomi di un ragazzo convinto che ogni sera fosse buona per divertirsi. «Sono stato fortunato,» risposi «non avevo difficoltà con le materie accademiche, il che mi lasciava parecchio tempo per le altre attività.»
Lei socchiuse gli occhi e mi fissò con sguardo da poliziotta. «Ma quanto sei in gamba?»
«Non è esattamente questo che vuoi sapere, giusto? Vuoi conoscere il mio QI.»
«D’accordo, qual è il tuo QI?»
«È molto superiore alla media, ma maledettamente inferiore a quello di Leonardo.»
«Non me lo dirai, vero?»
Scossi la testa. «È solo un numero senza senso. È quello che fai della tua vita che conta. Sono le nostre azioni a definirci. Sulla carta mio padre era un genio, ma ha scelto di usare il suo talento per nuocere.»
«E tu hai scelto di usarlo per cercare di riparare i torti. Di ripianare la situazione.»
Alzai le spalle ma non negai.
Templeton mi lanciò un’occhiata maliziosa. «Ti secca che Leonardo avesse un QI maggiore del tuo, vero?»
«La domanda è irrilevante. Il QI è stato inventato nel 1904, pertanto qualsiasi valore abbiano attribuito a Leonardo è solo la migliore ipotesi degli esperti.»
«Ti secca, è così.»
Il sottobicchiere su cui era posato il mio drink era storto e lo raddrizzai finché non fu perfettamente allineato. Il ghiaccio tintinnò contro il vetro. «Non mi secca.»
«Sostieni che sia solo un numero senza senso, ma scommetto che sapresti dirmi chi l’ha inventato e dove. Scommetto che potresti raccontarmi l’intera storia, perciò ecco la mia domanda: se è tanto insignificante, perché non me lo dici?»
«Perché non voglio che tu mi definisca in base a un numero.»
Templeton prese il mio bicchiere e bevve un sorso. Fece una smorfia e lo posò. Il sottobicchiere si spostò e io lo raddrizzai di nuovo.
«Interessante scelta di parole, Winter. Avresti potuto dire che non vuoi essere definito in base a un numero, invece hai detto che non vuoi che io ti definisca in base a un numero.»
«Un lapsus.»
Mi lanciò un’occhiata. «Sì, certo.»
«Ripetimi perché ti accontenti di uno stipendio da poliziotta. Saresti un ottimo avvocato.»
«Non ci sono abbastanza soldi al mondo, Winter.»
Risi. «Sì, a questo riguardo hai ragione.»
«Quando hai detto che tua madre era insegnante di musica, non intendevi che è in pensione, giusto?»
Ogni ilarità svanì e scossi la testa. «No. È morta alcuni anni fa.»
«Mi dispiace.»
«Non preoccuparti, probabilmente è meglio così. Non era mai riuscita ad accettare chi fosse mio padre.»
«E tu?»
«Ci sto lavorando.» Intrecciai le dita e allungai le braccia. «D’accordo, basta con le cose impegnative. Mi sono scaldato. Hai qualche richiesta?»
Templeton rifletté per un istante poi disse: «Conosci “A Whiter Shade of Pale”? È sempre stata una delle mie canzoni preferite.»
«Di che parla?»
Lei sfoderò uno di quei suoi splendidi sorrisi. «Sei tu il genio, dimmelo.»
«Be’, il fandango è un ballo originario della Spagna e la capriola, un esercizio acrobatico.»
Templeton mi colpì scherzosamente sul braccio. «Ad alcune domande non è necessario rispondere.»
«Ogni domanda richiede una risposta. Comunque sia, dobbiamo almeno cercare di rispondere perché è così che progrediamo. Se avessimo ignorato le domande più difficili, saremmo ancora appesi sugli alberi, beatamente ignari del fatto che il pollice opponibile ci ha resi i re della giungla.»
«Stai zitto e suona.»
Posai le dita sui tasti e chiusi gli occhi. La melodia mi fluì nella testa, ogni nota di un colore diverso. Elaborai alcuni semplici accordi e iniziai a suonare. La canzone doveva molto a Bach e io lo misi in risalto nella mia interpretazione, aggiungendovi anche un paio di fioriture di sapore mozartiano perché mi sembravano adatte. Quando terminai, Templeton mi stava di nuovo guardando con quell’espressione strana, indecifrabile.
«Sarà una domanda stupida» fece. «Ma l’avevi già suonata?»
Scossi la testa.
«È stato straordinario, Winter. Sono davvero colpita. Voglio dire, come diavolo fai? Sembri Rain Man o qualcosa di simile.»
«Per fortuna possiedo abilità sociali più sviluppate. E ti assicuro di non essere mai andato in crisi per aver perso il mio programma TV preferito.»
«Sì, certo.»
Risi a quella battuta. «Andiamo a cercare un tavolo.»