22
«Ora sono pronto a darti il profilo» annunciai a Hatcher. Eravamo soli davanti alla stanza interrogatori, in un corridoio grigio e silenzioso. Era lungo, illuminato da strisce a led e odorava di disinfettante. Mi ricordava i corridoi degli ospedali.
«Allora raduno le truppe.»
«Non così in fretta. Mi devi cinquanta sterline.»
Hatcher estrasse il portafoglio dalla tasca posteriore. Prese due biglietti da venti e uno da dieci e me li cacciò malvolentieri in mano.
«Lasci o raddoppi?»
«Ti ascolto.»
«Di’ ai tuoi di chiamare l’ufficio di Rachel Morris. Scommetto che nessuna collega ha invitato le amiche a bere qualcosa per il suo compleanno.»
Lui rifletté e scosse la testa. «Per me è troppo. Posso accettare di scommetterne cinquanta, ma cento sarebbe esagerato. Mia moglie mi ucciderebbe se lo venisse a sapere.»
«D’accordo, ma di’ a qualcuno di fare quella chiamata. Mi serve la conferma.»
«Fino a che punto sei sicuro che Rachel Morris sia la prossima vittima?»
«Abbastanza da mollare a metà il mio pranzo.»
«Parlo sul serio, Winter.»
«Rachel Morris è la prossima vittima. Se ti far star meglio, ordina pure ai tuoi di continuare a cercare, ma sprecherai solo tempo e risorse che possono essere utilizzati meglio in altro modo. Per esempio per trovare Rachel.»
«Dirò che facciano quella chiamata.»
Si allontanò in corridoio e io m’incamminai nell’altra direzione. Presi l’ascensore fino al pianterreno e uscii, trovai un angolo tranquillo in cui nessuno mi avrebbe infastidito e mi accesi una sigaretta.
L’aspetto più frustrante era l’assenza di scene del crimine. La polizia non aveva idea di dove le vittime venissero rapite; non c’erano corpi e dunque nemmeno luoghi in cui venissero scaricati. Io amavo perlustrare le zone battute dai criminali, annusare gli stessi odori, respirare la stessa aria: mi aiutava a sentirmi più vicino agli individui a cui davo la caccia, il che a sua volta mi aiutava a elaborare un profilo più preciso.
Mi strinsi nel giaccone per proteggermi dal freddo e pensai a Rachel Morris. Ora era sola, più di quanto non lo fosse mai stata in vita sua, e terrorizzata. Niente avrebbe potuto prepararla a quanto era successo e a quanto stava per succedere. Mi occupavo di fatti del genere un giorno sì e un giorno no e avevo sviluppato una certa tolleranza all’orrore. Dovevo farlo, per forza: era questione di sopravvivenza. Senza quella corazza non avrei potuto fare il mio lavoro. Ma Rachel Morris era una persona normale che conduceva una vita normale. Aveva senza dubbio vissuto molti alti e bassi, ma non aveva mai corso un vero pericolo, almeno non paragonabile a quello attuale.
Ebbi di nuovo un flash di Sarah Flight. Un attimo prima stavo pensando a Rachel, un attimo dopo a lei. Quell’immagine mi tormentava dal mattino, mi tornava in mente all’improvviso. Il subconscio stava cercando di dirmi qualcosa, ma cosa? Mi misi il cappuccio per isolarmi dal mondo esterno, chiusi gli occhi e riandai ad alcune ore prima. Rividi il nostro riflesso spettrale nel vetro, ma ancora non riuscivo a coglierne il senso.
Un istante dopo capii. Sorrisi tra me e scossi la testa, chiedendomi come diavolo avessi fatto a essere così stupido e ottuso. Quel flash non aveva niente a che fare con Sarah Fight e molto invece con il nostro sospettato.
Sentii Templeton prima di vederla. Il suo profumo era tenue e sensuale. Mi girai ed eccola là, splendida, con quel magnifico sorriso.
«Hatcher mi ha mandato a dirti che siamo pronti» esclamò.
«Gli avevo detto tra dieci minuti. Dai miei calcoli ne ho ancora cinque.»
«Voleva anche che ti dicessi che in parte avevi ragione.»
«In parte?»
«Ieri sera le colleghe di Rachel Morris sono andate a bere qualcosa per festeggiare un compleanno.»
«Ma Rachel non era con loro» conclusi. «Chiaro. Tutte le migliori bugie contengono un briciolo di verità.»
«Rachel è rimasta in ufficio fino a tardi. Ha detto alle colleghe che doveva finire un paio di lavori arretrati.»
Rientrammo insieme e salimmo in ascensore al quarto piano: lì, in una grande sala operativa, si trovava la squadra di Hatcher. La stanza era disseminata di tracce di un’importante indagine in corso: quintali di carte, tazze di caffè bevute a metà, cestini dei rifiuti traboccanti, contenitori di fast-food e scatole per le pizze. Quel giorno c’era fermento nell’aria, si percepiva un senso di concentrazione da parte di tutti gli agenti che lavoravano al caso. Niente era più stimolante di un nuovo sviluppo.
Quando entrai si voltarono tutti a guardare: una decina di poliziotti mi squadrarono con un misto di sospetto e circospezione. La maggior parte era contenta della mia presenza perché riteneva che potessi dare una mano, alcuni la tolleravano perché avevano ricevuto ordini in merito, altri erano infastiditi dalla mia ingerenza, convinti che li mettessi in cattiva luce e li facessi sembrare degli incompetenti.
Succedeva ogni volta che mi chiamavano per una consulenza. Io tuttavia non mi scomponevo minimamente di fronte a quello che pensavano gli altri. Era uno dei pochi aspetti positivi di aver avuto un padre serial killer. Se mi fossi lasciato influenzare dalle opinioni altrui sarei crollato già da tempo, com’era accaduto a mia madre. Era morta tre anni e mezzo prima, incapace di trovare pace e di voltare pagina, pur sapendo che l’uomo che per tanti anni aveva chiamato marito era morto. Si era uccisa a forza di bere, un po’ alla volta. La consideravo la sedicesima vittima di mio padre.
Entrare in quella stanza era come mettere piede per la prima volta in una scuola nuova, esperienza che avevo fatto più volte. Mia madre aveva reagito scappando. Aveva iniziato quando l’FBI le aveva portato via il marito e aveva continuato finché non era finita sotto terra. Tra gli undici e i diciassette anni avevo vissuto in quindici città di dieci stati diversi. Quindici case nuove, quindici scuole nuove, tutte diverse ma uguali, nel senso che il nuovo arrivato era sempre l’ultimo degli ultimi. Il trucco era cessare d’esserlo prima di subire un vero danno, e potevi farlo attaccando per primo oppure usando l’intelligenza. Io avevo scelto la seconda strada.
A una parete era appesa una grande mappa di Londra con quattro puntine rosse: i luoghi in cui erano state ritrovate le vittime. Tre all’interno della M25, tutti e quattro a nord del Tamigi. Patricia Maynard era l’unica ritrovata all’esterno. Le cinque puntine verdi sparpagliate qua e là segnalavano gli ultimi posti in cui le vittime erano state viste prima di essere rapite.
A destra della mappa c’erano le loro fotografie, disposte in due file ordinate, una sopra l’altra. La fila in alto era composta dalle cinque foto prerapimento, quella in basso dalle quattro postrapimento. Rachel Morris era l’ultima della serie, l’unica che non aveva una foto post. Era in posa davanti alla torre Eiffel: sorrideva e si stava chiaramente godendo quello che era un viaggio di piacere più che di lavoro. Aveva i capelli scuri raccolti e lo sguardo radioso. La foto risaliva a un periodo felice con Jamie: la negazione, a quanto pareva, dava i suoi frutti.
Hatcher zittì la sala, mi presentò sbrigativamente e mi invitò ad accomodarmi davanti. Mi sistemai in un posto liberato da un detective e mi girai verso la squadra. Si erano disposti in due semicerchi uno davanti, e uno dietro. C’era solo un’altra donna oltre a Templeton, e fra gli uomini c’erano un agente brizzolato in sovrappeso, che sarebbe dovuto andare in pensione da tempo, e un ragazzino che pareva troppo giovane per stare tra i grandi.
«In realtà abbiamo a che fare con una coppia di criminali. Gli uomini sono due» affermai dopo essermi schiarito la voce.