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Templeton scomparve nell’atrio e io rimasi lì a chiedermi il perché di tutta quella faccenda. Mi sembrava di aver appena sostenuto un esame o un colloquio di lavoro, ma non capivo perché, né a che scopo. Restai seduto per un po’ a sorseggiare il drink e a pensare a lei. Avevo escluso che tra noi potesse accadere qualcosa nel momento stesso in cui si era avvicinata al tavolo e ogni uomo della sala, sposato o single, l’aveva guardata.

Non che non lo volessi, ero solo realista. Le donne come Templeton non si interessavano a uomini come me, quello era il punto. Se fossimo stati al college, lei sarebbe stata la capo cheerleader e io lo studente modello che avrebbe tenuto il discorso di commiato. Le cheerleader puntavano agli atleti, non ai ragazzi che sapevano contare senza usare le dita e leggere senza muovere le labbra. Era una delle leggi che governavano l’universo, una regola ferrea grazie alla quale tutto e tutti trovavano la giusta collocazione.

Quando la musica divenne insopportabile, finii il drink e andai di sopra. La mia suite al Cosmopolitan non era niente di speciale. In una scala da uno al top, cioè Las Vegas, arrivava a quattro. L’arredo era anonimo come il bar. Le pareti erano bianche, e anche gli asciugamani e le lenzuola. Il divano e le poltrone erano color crema. La moquette beige era coperta da tappeti bianchi e alle pareti erano appese foto in bianco e nero. Era come se l’intera stanza fosse stata decolorata.

Nei diciotto mesi successivi alla condanna a morte di mio padre avevo vissuto in una serie di suite d’albergo, tutte anonime come questa. Ogni volta che accettavo un caso, insistevo per avere un appartamento anziché una stanza. Era una condizione non negoziabile. Durante il periodo nell’FBI, avevo dormito in troppe camere squallide di motel. Quella suite era il mio rifugio, un luogo in cui rintanarmi, anche solo per poche ore. L’ultima cosa che desideravo era litigare con le molle del letto, trovare la doccia rotta e sentire i vicini respirare al di là del muro.

In valigia avevo tutto ciò che mi serviva per affrontare la giornata. Era ancora da aprire perché non aveva senso disfarla. Sarei rimasto a Londra per alcuni giorni, una settimana al massimo, poi mi sarei trasferito in un altro albergo per dare la caccia a un altro mostro. Possedevo ancora una casa in Virginia. Aveva due stanze da letto e una sala abbastanza grande da ospitare degnamente il mio Steinway a mezza coda. Una volta la settimana passava qualcuno a controllare che non fossero entrati i ladri e una volta al mese una ditta puliva il giardino. Non sapevo perché non l’avessi venduta. Suppongo che tutti debbano avere un posto da chiamare casa, anche solo simbolicamente.

La seconda condizione, quando accettavo un caso, era che nella suite trovassi una bottiglia di single malt in omaggio. Di dodici anni andava bene, meglio se ne aveva quindici, e se era più vecchio meglio ancora. Hatcher aveva recuperato del Glenlivet di diciotto anni che era perfetto. Collegai gli altoparlanti portatili al laptop, trovai la sinfonia Jupiter di Mozart e premetti play. Mi versai il whisky e ne assaggiai un sorso, assaporandone il sapore di fumo e di torba.

Chiusi gli occhi e mi lasciai rapire dalla bellezza della musica. Mozart aveva il potere di condurmi in un altro mondo, ad anni luce da quello in cui vivevo. Un mondo di splendore e di vita, non di urla e di tortura, un luogo di speranza anziché di disperazione. Nel laptop conservavo le migliori esecuzioni che fossi riuscito a trovare delle sue opere. Tutto ciò che quel grand’uomo aveva composto era lì. Mi ero riproposto di raccogliere le interpretazioni più significative di ogni pezzo ed era una ricerca continua, la missione di una vita.

Quando il primo movimento terminò, aprii gli occhi. Restai seduto per un istante e sorseggiai il whisky. Non sapevo da quanto non dormissi, ma nonostante fossi così stanco da non riuscire più a vedere bene, non ero ancora pronto ad andare a letto. Iniziò il secondo movimento e controllai le mail. Non c’era niente di particolare. Un aggiornamento sul caso del Maine, una richiesta dal Dipartimento di polizia di San Francisco, qualche spam.

Uscii sul balcone a fumarmi l’ultima sigaretta, accompagnato dalla melodia del secondo movimento, intensa, gradevole, rasserenante. Londra era ammantata di bianco e sembrava pulita. I rumori erano più attutiti, le strade meno affollate. In alto un jet solitario sfrecciò rombando nella stratosfera. Il London Eye si stagliava immobile in lontananza con le sue luci bianche e blu. Finii la sigaretta e la gettai nel vuoto. Cadde roteando, la brace arancione ancora visibile, diventando via via più piccola fino a scomparire. Rientrai e buttai giù un sonnifero con un sorso di Glenlivet. Il mio ultimo pensiero prima di sprofondare nel sonno fu per la vittima numero cinque. Non sapevamo ancora chi fosse, ma quello che sapevo con certezza era che in quel momento era più sola che mai.

Sola e costretta a vivere un incubo.