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Rachel si avvolse nelle coperte in cerca di conforto. Il dolore era atroce, insopportabile, tanto da impedirle di pensare. Aveva la testa in fiamme e a ogni minimo movimento le terminazioni nervose sussultavano. Era quasi tutto localizzato nel dito mancante, il che era assurdo. Come poteva farle tanto male qualcosa che non c’era più?
Chiuse gli occhi e tentò di trovare il sole, ma non vi riuscì. Tentò di immaginare suo padre lì accanto a lei, ma non riuscì a trovare nemmeno lui. Tentò allora di ricordare il viso di sua madre, dei suoi fratelli, degli amici, ma tutto ciò che vide erano volti sfuocati, deformati dal dolore. Adam le aveva già tolto tanto e adesso le aveva rubato anche i ricordi.
Nel seminterrato echeggiò l’ululato selvaggio di un lupo e Rachel riaprì gli occhi. Girò di scatto la testa di qua e di là ma il buio continuava a incombere. Trattenne il fiato e restò in ascolto sforzandosi di capire dove fosse. Per qualche istante si dimenticò persino del dolore.
Si rannicchiò ancora di più nell’angolo e attese che l’animale l’azzannasse. Si strinse nelle coperte e afferrò il moncherino del dito mignolo. Era il suo urlo a essersi trasformato in ululato. Fece un lungo respiro che le attenuò la tensione, ma il dolore tornò, amplificato.
Le luci d’un tratto s’accesero, intense, accecanti. Rachel guardò le telecamere e gli altoparlanti. Guardò la porta, la poltrona e poi di nuovo gli altoparlanti, in attesa di istruzioni.
Ma rimasero muti.
«Cosa vuoi da me?» Era un sussurro più che un grido, le parole soffocate dalle lacrime.
Silenzio.
«Cosa vuoi?»
Si guardò la mano. Il moncherino nero cauterizzato contrastava con lo smalto rosso scheggiato delle altre dita. La sua mano era orribile. Anche se fosse uscita di lì, non lo avrebbe fatto fino in fondo. Ogni volta che l’avesse guardata, avrebbe pensato ad Adam. L’aveva marchiata a vita. Quello che le era successo l’avrebbe accompagnata fino al giorno della sua morte.
Un’altra ondata di dolore le annebbiò la mente. Chiuse gli occhi, pregò di trovare il sole e stavolta vi riuscì. Camminava su quella spiaggia dorata per mano a suo padre, la sabbia calda sotto i piedi. Lui le sorrideva, le diceva che andava tutto bene e per un breve istante Rachel gli credette.
«Mi dispiace» mormorò una voce.
Il sole svanì e Rachel riaprì gli occhi. Il mormorio proveniva da dietro la porta: gentile, teso, ansioso. Era Eve, non Adam. Il sollievo si sostituì allora alla sofferenza. Non avrebbe potuto sopportare un’altra visita di Adam, non a distanza così ravvicinata.
Si mise a fatica in piedi e attraversò la stanza incespicando. Raggiunse la poltrona e si fermò a riprendere fiato, le mani sui braccioli per reggersi. Vide i segni freschi del suo stesso sangue e avvertì una nuova fitta di dolore alla mano. Fece un lungo respiro e proseguì traballante verso la porta. Si sedette lentamente per terra e si mise una coperta sulle spalle.
«Ti fa molto male?» domandò Eve.
Ovviamente le faceva un male cane. Rachel chiuse gli occhi, fece un profondo respiro e si ricompose. Non voleva turbarla di nuovo, non dopo l’ultima volta.
«Sì, mi fa male» rispose.
«Vuoi qualcosa per il dolore?»
«Non voglio metterti nei guai con tuo fratello.»
«Adam è uscito. Starà via molto. Aspetta, torno tra un minuto.»
Sentì uno strascicare di piedi e i passi svanire nel corridoio. Aspettare: dove pensava sarebbe andata? Era una frase stupida, ingenua, ma corrispondeva all’idea che si era fatta di Eve. Non era molto intelligente. Le sembrava un po’ la versione femminile di George, il personaggio di quel romanzo di Steinbeck che aveva letto a scuola.
Arrivò un’altra ondata di dolore.
Chiuse gli occhi finché il senso di stordimento svanì. Quando li riaprì, il dolore c’era ancora e si augurò che Eve facesse in fretta con l’analgesico.
Il tempo trascorse lentamente.
Poi udì alcuni passi avvicinarsi e di nuovo uno strascicare di piedi. Eve si mise a sedere. Lo sportello si aprì è una siringa rotolò per terra. Rachel la raccolse con mano tremante. Si aspettava delle pillole e non quella cosa. Odiava gli aghi.
«Devi picchiettarla per eliminare le bolle d’aria» disse Eve. «Poi lo inietti nella mano.»
Rachel tenne la siringa rivolta in alto e la picchiettò per far salire le bolle. Premette lo stantuffo e ne uscì un piccolo getto di un liquido chiaro. Guardò l’ago, guardò la sua mano tremante e prima di cambiare idea si fece l’iniezione. La testa le girò, la vista le si offuscò e sentì uno strano ronzio ma in qualche modo riuscì a non perdere conoscenza.
«Gesù» bofonchiò.
«Non dovresti dirlo» fece Eve. «Non è bello.»
«Scusami, Eve, non lo dirò più.»
«Passami la siringa attraverso lo sportello.»
Fece come indicato. Eve la prese e le loro dita si toccarono. Aveva una pelle calda e morbida. Da quando era lì, era il primo contatto umano con qualcuno che non fosse Adam.
«Grazie, Eve.»
«Prego.»
Rachel si appoggiò al muro e attese che il farmaco facesse effetto. Sperava che fosse rapido, il dolore era più forte che mai.
«Dico sul serio, Eve. Grazie per tutto quello che fai.»
«Adesso posso truccarti?»
«Certo, Eve.»
La serratura si aprì con un clic e la porta si spalancò. Rachel sollevò lo sguardo e vide Adam in piedi davanti a lei.
«Ciao Numero Cinque.»
La faccia era di Adam, ma la voce di Eve.