19

Templeton si fermò davanti a un caffè in una strada laterale. Quel locale era lì da sempre e aveva visto giorni migliori. La vernice arancione si stava scrostando e sopra la porta si leggeva la scritta Angelica in caratteri neri svolazzanti, ormai sbiaditi. I negozi adiacenti erano sbarrati con pannelli di legno, coperti di graffiti e di strati di manifesti di eventi passati da tempo. Guardai il caffè e poi Templeton.

«Stai scherzando» esclamai.

Lei scosse la testa. «Mai stata più seria.»

«Siamo a Londra, una città dove ci sono migliaia di posti per mangiare e alcuni dei più raffinati ristoranti del mondo, e questo è quanto di meglio hai trovato?»

«Spesso l’apparenza inganna. Fidati, la cucina è straordinaria.»

Entrammo e l’italiano dietro il banco le andò incontro per abbracciarla come una figlia che non vedeva da tempo.

«Come sta la mia detective preferita?» domandò.

«Bene, Federico.»

«Sei sempre a caccia di cattivi, così noi possiamo dormire sonni tranquilli?»

«Faccio del mio meglio.»

Federico mi indicò. «Chi è... il tuo nuovo fidanzato?»

«Non è il mio fidanzato.» Templeton gli lanciò un’occhiata indulgente. «Questo è Jefferson Winter. Ci aiuta in un caso.»

Lui mi tese la mano e io gliela strinsi. Doveva avere quasi settant’anni, ma era ancora piuttosto in gamba.

«Allora che cosa vi porto, ragazzi?»

Io ordinai lasagne, lei una colazione all’inglese completa. La sala settoria era già un ricordo lontano e aveva ritrovato l’appetito. Faceva parte del mestiere di poliziotto. C’era un preciso rapporto tra l’esperienza e la quantità di tempo necessaria a recuperare dopo qualcosa di raccapricciante. Più ne vivevi, prima ti riprendevi. Templeton aveva avuto bisogno di buona parte del tragitto in macchina per tornare in sé. Io stavo già bene appena raggiunta la porta del laboratorio.

Il tavolo accanto alla finestra era libero. I posti vicino alle finestre erano l’ideale perché potevi osservare il mondo esterno. Mi aprii il giaccone, lo appesi allo schienale della sedia e mi misi comodo. Fuori c’era un flusso costante di persone, alcune parlavano al cellulare, altre camminavano decise, con un obiettivo in mente, tutte però si portavano dietro i propri drammi personali. Una bella ragazza con un abito fin troppo corto per la stagione attirò la mia attenzione perché aveva due gambe fantastiche. Impossibile non guardarla.

Fissai fuori dalla finestra ripensando a quanto avevamo appreso quel mattino. Aggiunsi nuovi dettagli al profilo, ne rivalutai e ne modificai altri. Federico arrivò con le bevande. Misi due cucchiaini di zucchero nel caffè e lo mescolai. Templeton mi stava osservando.

«Che c’è?» dissi.

«Sei in un altro mondo. Cosa stai pensando?»

«Mi chiedevo perché mi avessi detto che tuo padre era un poliziotto.»

«Non stavi pensando questo.»

«Forse no, ma è quello che sto pensando ora. Perché hai ritenuto di non dover essere sincera?»

«Mi stai dando della bugiarda?»

Scoppiai a ridere. «In fondo, cambia poco. Ad ogni modo, stai eludendo la domanda. Tuo papà non era un poliziotto, vero? E nemmeno tuo nonno.»

«No» ammise. «Mio padre era ragioniere.»

«Allora qual è la storia?»

«È una stupidaggine.» Parlava con voce sommessa, incerta.

«Mi piacciono le stupidaggini.»

«D’accordo, te la racconto, ma promettimi di non ridere e di non farne mai parola con nessuno. Neanche una parola, Winter.»

«Lo giuro.»

«Non l’ho mai raccontato a nessuno.»

«Parla o rinuncia, ma non tenermi in sospeso.»

Templeton fece un profondo respiro e cominciò. Le parole le uscirono veloci, quasi temesse di non riuscire a pronunciarle.

«Quand’ero bambina, non volevo fare l’attrice, la ballerina o tutte quelle cose che di solito desiderano le femmine. Volevo diventare poliziotta o, per essere precisi, detective. Nancy Drew è stata la mia prima eroina. Ho letto tutti i suoi libri. E guardavo tutti i polizieschi, anche quelli più brutti. Le repliche degli anni Settanta e dell’inizio degli anni Ottanta, tutto. Cagney and Lacey era la mia serie preferita.»

Si intirizzì a quell’ammissione, palesemente imbarazzata. Mi piaceva quel suo lato, direi quanto quello sfacciato e duro, se non di più. Per qualche ragione era più vero, uno scorcio di quanto c’era dietro la maschera. Capivo tuttavia perché si presentasse così: le forze dell’ordine erano un mondo ancora in gran parte dominato dagli uomini, e lei aveva ambizioni e grandi sogni. Per arrivare dove voleva, doveva usare la testa e stare al gioco. Non sarebbe rimasta sergente. Aveva le capacità per diventare un ottimo ispettore, anche un ispettore capo. Avrebbe potuto arrivare ai vertici della carriera, se lo avesse voluto.

«Non c’era niente che non andasse in Cagney and Lacey» osservai.

«C’era tutto che non andava. Scommetto che detestavi quella serie.»

«Va bene, lo ammetto. Ero più tipo da Equalizer

«Un solitario lunatico che vuol salvare il mondo aiutando una persona alla volta. Sì, capisco. Anche se tecnicamente non era un poliziesco.»

«Cambia poco.»

Scoppiò a ridere e io la seguii.

«Non lo so perché fossi tanto ossessionata. Non avevo fratelli con cui competere e i miei genitori non mi spingevano in quella direzione. Forse pensavo che fosse un lavoro in cui potevi fare la differenza. Non appena ho avuto l’età sono entrata alla Met.»

«Pensi ancora di poter fare la differenza?»

Rifletté sulla domanda bevendo il tè. «Alcuni giorni sì, altri no. Nel complesso, sono più i giorni sì di quelli no. Credo che se la situazione cambiasse, mollerei.» Sfoderò quel suo splendido sorriso. Aveva i denti perfetti, due file bianche e dritte. «Ammetto di aver perso il treno, non potrò più diventare una ballerina, ma forse non è troppo tardi per fare l’attrice.»

Federico arrivò con il cibo. Il mio non aveva guarnizioni. Niente insalata né pane, solo una porzione di lasagne sul piatto. L’aspetto non era granché ma Templeton aveva ragione: il sapore era straordinario. Il suo piatto era un’overdose di colesterolo: bacon, salsiccia, uova, fagioli e quant’altro. Lo guardai e mi chiesi come facesse a essere così magra.

Con la forchetta prese un po’ di fagioli. «E di te che mi dici? Perché fai quello che fai?»

«Sono diventato poliziotto perché mio padre era un serial killer.»

«Non è quello che ti ho chiesto.»

Aveva ragione e lo sapevamo entrambi. Mi stava di nuovo fissando, ma il suo sguardo non era cordiale né vago. Era quel genere di sguardo che induceva un innocente a confessare. Era ricomparso l’altro lato di Templeton, quello duro da poliziotta di cui Hatcher mi aveva avvertito. Si capiva perché fosse straordinariamente brava nel suo lavoro.

«Questo spiega perché sei entrato nell’FBI,» affermò «ma non perché te ne sei andato o perché stai facendo ciò che fai.»

Tacqui, cercando di stabilire quale fosse il modo migliore di rispondere. Avrei potuto addurre un’infinità di ragioni: una principale, e molte altre secondarie. Erano tutte vere, ma nessuna rendeva con precisione l’idea. Avevo dedicato undici anni della mia vita all’FBI e negli ultimi tre ero stato il loro profiler più importante. Mi avevano insignito della Medaglia al valore per il contributo dato in un caso di rapimento conclusosi con il salvataggio della ragazza e la morte del rapitore.

In apparenza avevo condotto una brillante carriera all’FBI, ma in realtà non era tutto così cristallino. Avevo sempre agito di testa mia, da outsider. Ma l’FBI non era un posto adatto agli outsider: la sua è un’organizzazione enorme: trentaquattromila dipendenti e un budget annuale di otto miliardi di dollari. L’accento è posto sul lavoro di squadra, e più salivo nella scala gerarchica, più risultava evidente che non ero ben integrato e che non lo sarei mai stato. Mi ero fatto dei nemici negli alti vertici. I rancori erano aumentati e la politica si era messa di mezzo e io non ero mai stato abile come politico. Tutte le volte che mettevano in dubbio i miei metodi, sostenevo che era il modo più appropriato per portare a termine il lavoro, ma era una tesi che ben presto non resse più.

Quelle erano le ragioni secondarie. La ragione principale erano le tre parole pronunciate in quella stanza del carcere di San Quintino diciotto mesi prima.

Noi siamo uguali.

In ogni decisione importante c’è un momento critico in cui l’ago della bilancia si sposta da una parte o dall’altra. Quel momento per me giunse allora. Avevo rassegnato le dimissioni dall’FBI appena rientrato in Virginia, avevo liberato la mia scrivania e me n’ero andato senza voltarmi indietro. Sapevo che mio padre cercava di fottermi, ma non importava. Quelle tre parole fecero più male di un proiettile. Non avevo mai ucciso nessuno a sangue freddo e di certo non mi ero mai avventurato in una foresta sotto la luce spettrale della luna per dare la caccia a una donna innocente con un fucile potente e un cannocchiale per la visione notturna.

Ma saperlo non bastava. Dovevo dimostrare a me stesso che non eravamo uguali e non potevo farlo restando legato all’FBI. Per questo avevo scelto quella strada e pretendevo tanto da me stesso.

Noi non eravamo uguali.

Però…

Il cellulare ronzò nella tasca dei jeans. Templeton mi stava ancora fissando, in attesa di una risposta. Avrebbe dovuto aspettare. Premetti un paio di tasti. Hatcher mi aveva mandato due fotografie, sgranate e un po’ confuse sul piccolo monitor del telefono, ma vidi tutto ciò che mi serviva. La donna della prima immagine aveva i capelli scuri e gli occhi castani. Ne avevano denunciato la scomparsa quarantott’ore prima. Ma non era l’unica. Aprii la seconda foto ed ebbi un brivido. Corrispondeva tutto: i capelli scuri, gli occhi castani, lo sguardo sicuro con cui fissava l’obiettivo. Posai il cellulare sul tavolo e lo girai perché Templeton potesse vedere.

«Ti presento la prossima vittima» dissi.