21
Ero seduto con i piedi sulla scrivania a bermi un caffè e a osservare Jamie Morris sul monitor. Girava in senso orario attorno al tavolo della stanza interrogatori. Continuava senza sosta, come un giocattolo a molla. Percepivo tutta la sua energia repressa, la frustrazione, la rabbia. Era molto teso, un animale in gabbia, spaventato e ansioso di fuggire. Morris era un quarantenne incapace di accettare la sua età, un uomo che avrebbe fatto di tutto per sembrare più giovane: una plastica, un patto con il diavolo, qualsiasi cosa.
Rachel Morris aveva trent’anni, dieci meno di lui, ed era una delle ragioni per cui l’aveva sposata. Le donne che si scopava in giro erano ancora più giovani. Come Jagger, Picasso e una sfilza di illusi che risaliva alla notte dei tempi, Jamie credeva di poter ottenere l’eterna giovinezza grazie al sesso. Era alto uno metro e settantadue, aveva occhi castani, capelli neri corti, tinti per far scomparire il grigio, e unghie ben curate. Era vestito in modo informale con un paio di jeans e una felpa griffati, che probabilmente costavano più della metà di un buon abito. Era sfinito dallo stress: dava l’impressione di un uomo abituato ad avere il controllo, che si era visto crollare il terreno sotto i piedi.
Alla fine si stancò di girare e si sedette. Era il segnale che aspettavo. Feci un cenno a Hatcher: era il momento. Uscendo, presi un altro caffè e mi cacciai in tasca un paio di bustine di zucchero e un paio di bustine di latte in polvere.
L’odore mi investì non appena entrai nella stanza. Era familiare, viste le tante ore passate a interrogare psicopatici e serial killer: un misto di sudore rancido, sapone e disperazione. La stanza ne era invasa: pareti, piastrelle del pavimento, il tavolo di legno, le sedie di plastica, tutto ne era impregnato. Morris scattò in piedi appena ci vide.
«Mi serve un avvocato?» Parlava in fretta e le parole gli uscivano di getto. «Non ho fatto niente a Rachel, lo giuro su Dio. L’amavo.»
L’amavo, non la amo. Annotai mentalmente l’uso dell’imperfetto. «Si rilassi!» esclamai. «So che non ha niente a che fare con la sua scomparsa.»
«Allora perché mi avete portato qui?»
«Dobbiamo farle alcune domande» intervenne Hatcher. «Stiamo cercando di capire che cosa sia successo a sua moglie.»
«È morta, vero?»
«Perché non ci sediamo?»
Si accasciò sulla sedia. Sembrava piccolo, sconfitto, gravato dal peso dell’incertezza. Mi sistemai di fronte, al di là del tavolo.
Avevo studiato Morris sul monitor per un po’, ma era diverso trovarselo davanti, a stretto contatto. Il suo nervosismo era prevedibile. La sera precedente la moglie non era rientrata e quel mattino ne aveva denunciato la scomparsa. Un’ora prima un’auto della polizia era andata a prenderlo e lo aveva portato lì. In un giorno il suo mondo si era capovolto. Gli avvicinai il caffè, lo zucchero e il latte.
«Ho pensato che avrebbe gradito un caffè» dissi.
«Grazie.»
Versò entrambe le confezioni di latte nella tazza ma non mise zucchero. La mano destra gli tremava un po’, ma anche quello era prevedibile. Sul medio aveva una lieve macchia di nicotina.
«Sono l’ispettore Mark Hatcher e questo è Jefferson Winter» Hatcher fece le presentazioni. «Registreremo il colloquio, se è d’accordo.»
Morris assentì. Non che il suo consenso facesse alcuna differenza. Il colloquio sarebbe stato registrato comunque, ma sapevo perché Hatcher glielo avesse chiesto. Sarebbe stato un interrogatorio soft e avrebbe dato a Morris l’illusione di avere un minimo di controllo sulla situazione. Il termine operativo era proprio «illusione».
«Quando ha visto l’ultima volta sua moglie?» chiese Hatcher.
«Ieri mattina. Abbiamo fatto colazione insieme.»
«Che ora era?»
«Circa le sette.»
«Di solito fate colazione insieme?»
«In genere sì. Rachel ha più strada da fare per andare al lavoro, perciò tende a uscire prima.»
«E ieri è andata così?»
Lui annuì.
«Ha notato qualcosa di strano nel comportamento di sua moglie?» fece Hatcher. «Di diverso?»
Morris scosse la testa. «Sembrava normale.»
«Cosa intende per “normale”? La prego di essere onesto, signor Morris.»
«D’accordo, diciamo solo che Rachel non è di buon umore al mattino.»
«Avete litigato?» domandai.
«No.»
«Vi siete detti qualcosa?»
«Non proprio. Mi ha detto che sarebbe uscita a bere qualcosa con le colleghe e sarebbe tornata tardi. Credo fosse il compleanno di qualcuna.»
«Crede?» incalzai.
«A dire il vero non stavo ascoltando. Anch’io non sono di buon umore al mattino.»
«Quindi è andato al lavoro, è rientrato, ha trascorso una serata tranquilla, è andato a letto e quando si è svegliato, sua moglie non c’era.»
Morris esitò. Fu una reazione tanto lieve che a un altro sarebbe sfuggita.
«Esatto» rispose.
«Come si chiama?» chiesi.
«Prego?»
«Ieri mattina, quando Rachel le ha detto che sarebbe uscita a bere qualcosa, lei ha drizzato le orecchie, vero? Era un’occasione troppo buona per lasciarsela sfuggire. Allora, è andato a mangiare fuori o dritto al solito albergo?»
«Non so che cosa stia insinuando.»
«Ovviamente lo sa. Lei è psicologicamente disfunzionale e il suo matrimonio è a pezzi, ma non è uno stupido.»
«Amo mia moglie.»
«Certo.»
«Senta» intervenne Hatcher. «Non ci interessa che cos’abbia combinato. Ci interessa solo ritrovare Rachel.»
«Ritrovare Rachel.» Morris ripeté le parole in un sussurro. La mano gli tremava più che mai. «Pensate che qualcuno l’abbia rapita?»
«Sappiamo che qualcuno l’ha rapita» ribattei. «E prima che aggiunga altro, voglio che mi ascolti molto attentamente. L’uomo che ha rapito sua moglie è un sociopatico. Gode a vedere le vittime soffrire. Trascorre ore a vederle soffrire. Ha tenuto l’ultima tre mesi e mezzo, durante i quali l’ha ripetutamente torturata con coltelli, ferri da maglia, oggetti d’ogni genere. È molto creativo quando si dedica al suo passatempo preferito. Poi, quando se n’è stancato, l’ha lobotomizzata. Ha preso uno strumento affilato chiamato orbitoclasto, glielo ha infilato nell’occhio, le ha perforato l’osso sottile dell’orbita e le ha distrutto il cervello.»
Morris sbiancò in volto. «Mio Dio» bisbigliò.
«Prima ha detto di amare sua moglie. Ora, non so se sia mai stato così, ma anche se non fosse vero, suppongo vorrà darci una mano a ritrovarla perché questa è la cosa giusta da fare. Ciò significa che dovrà collaborare e con questo intendo niente segreti.»
Morris si accasciò ancora di più sulla sedia con un’espressione tormentata. Voleva fare la cosa giusta e nello stesso tempo non voleva.
«Helen Springfield» disse con un filo di voce.
«Da quanto tempo la vede?»
«Da un paio di mesi.»
«E prima ci sono state altre Helen, vero? Una bella sfilza?»
Lui annuì.
«Rachel sapeva delle sue relazioni?»
«No, non penso.»
Inarcai le sopracciglia e lo guardai. Una persona lo sapeva, soprattutto se il partner era un infedele seriale. Poteva decidere di negare l’evidenza, ma lo sapeva.
«Forse sospettava qualcosa» ammise con riluttanza.
«Quand’è rientrato ieri sera?»
«Un po’ dopo le undici. Rachel aveva detto che sarebbe tornata a mezzanotte, perciò volevo essere sicuro di rincasare prima di lei. Sono andato subito a letto e quando mi sono svegliato, il mattino dopo, non c’era. Ho il sonno profondo, a maggior ragione se bevo un paio di bicchieri. Non appena mi sono reso conto che non c’era, ho chiamato le sue amiche, ma nessuna aveva sue notizie. Allora ho telefonato alla polizia.»
«Rachel le è mai stata infedele?» chiesi.
«Rachel? Neanche per sogno. Mai.»
«Ne è sicuro?»
«Mia moglie non mi tradirebbe mai.»