57

La stanza migliore ha sempre la vista migliore e quella dal mio balcone si perdeva in lontananza. Finestre, macchine e autobus, taxi, furgoni e lampioni: era tutto uno sfolgorio di luci. Gli addobbi natalizi avevano trasformato la sera in un arcobaleno di colori e la città sembrava il disegno di un caleidoscopio. Fuori c’erano milioni di persone, alcune buone, altre cattive, la maggior parte né buona né cattiva, ma in quel momento a me ne interessava una soltanto.

Feci un tiro e la punta della sigaretta brillò, arancione. Mancava un quarto alle nove. L’appuntamento con Templeton era tra quindici minuti, il che significava che ne sarebbero passati venti prima che la vedessi, perché avrebbe sicuramente deciso di arrivare con cinque minuti di ritardo.

La sera portava con sé i suoi rumori, la sommessa sinfonia del traffico, dei treni e delle persone assorte nelle loro attività. La giornata stava finendo e già avvertivo quel senso di oppressione al petto legato all’ennesima fase di stallo.

Tutto quello che poteva essere fatto era stato fatto.

La conferenza stampa non era stata menzionata dal telegiornale delle sei, ma era stata la notizia principale da mezzogiorno alle cinque. E cinque ore bastavano perché quei criminali l’avessero sentita. I criminali organizzati seguivano scrupolosamente i notiziari perché amavano avere la riprova d’essere più in gamba della polizia. Non smettevano mai di compiacersi, ed era proprio questa una componente fondamentale del gioco.

Come stava reagendo Rachel Morris? Aveva capito chi l’aveva rapita? Probabilmente sì. La storia era di dominio pubblico, e quindi sapeva quale futuro l’attendesse: torture, mutilazioni e alla fine la lobotomia. Mi chiesi quanto fosse forte, ma, in fondo, che contava. Se anche lo fosse stata, quell’uomo l’avrebbe piegata.

A meno che non l’avessimo salvata.

Gettai la sigaretta nel vuoto e tornai dentro, al caldo. Dal laptop si diffondevano le note del secondo movimento del concerto per clarinetto di Mozart. Era sempre stato il mio movimento preferito. Il suono malinconico del clarinetto mi toccava nel profondo. Mozart aveva scritto ventisette concerti per pianoforte ma solo uno per clarinetto e a mio parere aveva deciso di smettere quand’era all’apice. Meglio di così non avrebbe potuto fare.

Avevo già fatto la doccia e mi ero messo una maglietta pulita dei Doors. Dovevo solo attendere. È una cosa che da sempre mi fa incazzare. Adoro il movimento e l’azione, mi piace tenermi occupato. Quando mi fermo, il mio cervello lavora troppo, il che non è sempre un bene. Secondo il mio orologio mancavano cinque minuti alle nove. Rimanevano ancora dieci minuti d’attesa.

Presi il laptop e controllai la posta. Tra le mail c’erano le solite richieste d’aiuto e alcune spam. Una aveva numerosi allegati. La curiosità a quel punto ebbe la meglio e li aprii.

Arrivava dallo sceriffo di una cittadina di provincia dell’Alabama per me sconosciuta. Due ragazzine di tredici anni erano state rapite e assassinate e lui non voleva che altre facessero la stessa fine. Diedi una scorsa ai rapporti e ai verbali delle autopsie: i pezzi si incastrarono quasi subito. La risposta stava nei dettagli. In apparenza i due omicidi sembravano identici, invece non lo erano. Qualcuno si era dato molto da fare perché sembrasse così, e quel qualcuno era il patrigno della prima vittima.

Le ragazzine erano state uccise con venti coltellate e la posizione delle ferite era quasi uguale. Una differenza riguardava la profondità dei tagli: maggiore in media di cinque centimetri nella prima vittima. Un’altra differenza consisteva nel fatto che la seconda ragazzina era stata pugnalata prima al cuore, il che significava che nessuna delle altre diciannove ferite era necessaria perché a quel punto era già morta. Il killer aveva bisogno che lo fosse, perché restasse immobile mentre sferrava le altre coltellate nei punti giusti.

La prima era stata uccisa in un impeto di rabbia: si era trattato di un omicidio dovuto a motivi personali. La seconda a sangue freddo: in questo caso mancava la componente di rabbia. La seconda vittima era dunque una copertura, l’ennesima persona sfortunata che si era trovata nel momento sbagliato nel posto sbagliato.

Tornai alla mia casella mail, cliccai su “rispondi” e iniziai a scrivere. Per prima cosa comunicai allo sceriffo che il colpevole era il patrigno, poi che non doveva temere altre vittime perché quell’uomo si era fermato alla seconda. Aggiunsi che avrebbe trovato il coltello nascosto sotto una pila di riviste porno nel garage della casa della prima ragazzina.

L’orologio sullo schermo indicava le nove e dieci, ma guardai ugualmente quello da polso per controllare se c’era qualche problema. Non era così. Presi il cellulare e decisi di aspettare altri cinque minuti. Lo posai accanto al laptop e attesi. I cinque minuti passarono e di Templeton ancora nessuna traccia. Recuperai il suo numero. Dopo cinque squilli scattò la casella vocale e lasciai un messaggio breve e allegro. «Salve, mi chiedevo dove fossi finita.»

I dieci minuti diventarono quindici e richiamai. Il telefono squillò e scattò di nuovo la casella vocale. Non aveva senso lasciare altri messaggi. Templeton non teneva il telefono in fondo alla borsa. Era una ragazza del ventunesimo secolo, sempre raggiungibile e in contatto con il mondo. Non sarebbe mai andata da nessuna parte senza e lo avrebbe tenuto a portata di mano, per rispondere al massimo al terzo squillo. Se fosse stata in ritardo, mi avrebbe chiamato.

Provai allora a Scotland Yard, perché era possibile che avesse fatto un salto in ufficio. Possibile ma improbabile. Se fosse tornata lì mi avrebbe chiamato. La persona con cui parlai mi disse di averla vista l’ultima volta nel pomeriggio. Chiese ai colleghi ma nessuno aveva notizie.

Uscii sul balcone a fumarmi un’altra sigaretta e pensai chi diavolo potevo chiamare ancora. Non avevo il suo numero di casa e non conoscevo nessuno dei suoi amici. In sostanza, non sapevo niente della sua vita privata. Presumevo ne avesse una ma era una poliziotta, e non si poteva mai sapere. Fare il poliziotto era una vocazione, non una professione.

Chiamai Hatcher, che rispose al primo squillo.

«Mi serve l’indirizzo di casa e il telefono di Templeton» dissi.

«Perché? Pensavo venisse da te.»

«Non si è fatta vedere.»

«Sono sicuro ci sia un buon motivo. Sarà in ritardo.»

«Non è in ritardo. Le è successo qualcosa.»

«Ti preoccupi inutilmente, Winter. Non è successo niente.»

«Non è qui, non è in ufficio e non risponde al cellulare. Dimmi, Hatcher, sei proprio sicuro che non sia successo niente?»

Inspirò bruscamente, sospirò e poi tacque. Erano tutte reazioni di un uomo che stava prendendo una decisione difficile. «D’accordo, resta lì. Passo a prenderti.»