28

Rachel camminava su e giù nel seminterrato al buio, tracciando mentalmente una mappa della prigione. Pensò il materasso come nord e la porta come sud. Se ogni passo equivaleva più o meno a un metro, c’erano dieci metri dal materasso alla poltrona e altri dieci dalla poltrona alla porta. Da est a ovest la stanza era larga venti metri. Ogni parete misurava dunque venti metri.

La poltrona odontoiatrica era nel centro esatto.

Le misurazioni corrispondevano a quelle effettuate l’ultima volta e la volta precedente. Aveva perso il conto di quante volte le avesse fatte. La tenevano occupata, l’aiutavano a combattere la noia e a non pensare. A non lavorare con la fantasia, almeno per un po’.

Si avvicinò alla porta e premette le mani sullo sportello. La plastica era fredda e liscia sotto i palmi. Tastò i bordi fino a trovare la parte in basso in cui erano impressi il nome e il logo del produttore. Lo spinse leggermente, con cautela. Era bloccato, come tutte le altre volte che ci aveva provato.

Anche se fosse stato aperto, non sapeva che cosa avrebbe potuto fare. Immaginava di strisciarvi attraverso e di cercare di scappare, ma era terrorizzata al pensiero di quello che Adam le avrebbe fatto se l’avesse presa. Che fosse bloccato non era tuttavia un ostacolo. Era di plastica e chiuso da una linguetta rossa dello stesso materiale. Se avesse voluto, avrebbe potuto dargli un calcio e tentare la fuga per la libertà.

E Adam lo sapeva.

Tornò al materasso, trovò le coperte e vi si avvolse come in un bozzolo. Si stava facendo un’idea del luogo in cui era tenuta prigioniera. La casa era grande e vecchia, sicuramente isolata. Aveva l’impressione che ci fossero ampie stanze e spazi sopra la sua testa. L’udito compensava la cecità e il buio amplificava i suoni. Nei paraggi c’era una caldaia che produceva un forte rumore quando si accendeva; i sibili e le vibrazioni dei tubi vicini e lontani le davano la sensazione di un’abitazione vasta. Ogni tanto sentiva gli scricchiolii di assi del pavimento; anche in questo caso alcuni erano vicini, altri lontani.

Il rumore non era un problema. Adam lo aveva dimostrato chiaramente usando quegli altoparlanti e non si era preoccupato di quanto urlasse quando l’aveva picchiata con la canna. Poi c’erano le macchie di sangue sui braccioli. Chiunque le avesse lasciate, non l’aveva fatto in silenzio. Se qualcuno fosse vissuto nei dintorni o se fosse passato in una strada vicina, avrebbe chiamato la polizia e Adam sarebbe già finito in carcere. Poi c’era il fatto che lo sportello poteva essere facilmente forzato. Di sicuro Adam era convinto che se lei fosse uscita non sarebbe andata lontano. Sapeva che sarebbe riuscito a trattenerla, dato che in zona non c’era nessuno che potesse aiutarla.

Tutto ciò faceva pensare a una grande casa isolata, al riparo da vicini e passanti curiosi.

Si passò la mano sul cranio liscio e cercò di convincersi che erano solo capelli, che sarebbero ricresciuti, ma invano. Non erano solo capelli, erano i suoi capelli e Adam glieli aveva rubati.

Avrebbe voluto che suo padre fosse lì, non perché fosse suo compito scacciare i mostri, ma perché avrebbe potuto spezzare le gambe ad Adam. Rachel aveva origliato alcuni discorsi quand’era piccola, sentito certe conversazioni telefoniche. I suoi fratelli le avevano riferito chiacchiere e congetture, e quando aveva messo tutto insieme aveva capito chi fosse suo padre. Aveva accettato da tempo quello che faceva e per quanto non approvasse i suoi metodi, non aveva dubbi sul fatto che le volesse bene e che avrebbe fatto di tutto per lei, anche spaccare le ossa a qualcuno.

Il buio era disorientante. Non c’era niente che potesse usare per calcolare il trascorrere del tempo, nessuna finestra sbarrata da cui filtrassero fasci di luce, nessuna fessura nelle assi sopra la sua testa. Il corridoio al di là dello sportello era buio come il seminterrato.

Non sapeva da quanto tempo fosse lì. Pensava almeno da un giorno, ma non poteva esserne certa perché non aveva alcun punto di riferimento. Ricordava d’essere salita sulla Porsche di Adam e poi più niente finché non si era svegliata. Forse si trovava là da un paio d’ore, forse da più tempo. O da meno. Proprio non lo sapeva.

Quanto doveva passare prima che fosse ufficialmente considerata scomparsa e la polizia iniziasse a cercarla? Forse quarantott’ore, ma non era certa; era solo una notizia che aveva sentito in televisione.

Jamie aveva già contattato la polizia? Voleva credere di sì. Perché non avrebbe dovuto farlo? Se era tornato a casa presto e andato dritto a letto, forse non si era accorto che non era rientrata. Dormiva così profondamente che nemmeno una bomba o un terremoto avrebbero potuto svegliarlo, ma a colazione doveva aver notato la sua assenza. E telefonato alle sue amiche per sapere se avessero sue notizie. A quel punto, non avendo ottenuto niente, si sarebbe rivolto alla polizia.

Era una reazione logica. L’unica possibile. Un dubbio si insinuò tuttavia nella sua mente. Stava parlando di Jamie, e Jamie non reagiva necessariamente in modo logico.

Ripensò ai discorsi con le colleghe e concluse che avrebbe dovuto prestare più attenzione. Ricordava alcuni vaghi dettagli, ma niente d’importante. Torture, lobotomie, ferite con ferri da maglia. Allora quei particolari le erano sembrati rivoltanti, notizie da tabloid. Ripugnanza, disgusto e incredulità: avevano reagito tutte nello stesso modo. Nessuna riusciva a capire come un essere umano potesse fare cose del genere ai suoi simili.

Un paio di ragazze si erano anche chieste, seppure in modo molto vago, che cosa si provasse. Non avevano considerato veramente che cosa significasse essere alla mercé di uno psicopatico che si divertisse a farti del male e che, una volta finito di spassarsela, ti avrebbe distrutto il cervello trasformandoti in un vegetale. Ma in fondo perché avrebbero dovuto? A nessuna di loro sarebbe capitata un’esperienza così. Sarebbe stato più facile vincere alla lotteria.

Invece a lei era capitata.

Lo sportello si mosse e lei sollevò di scatto la testa in direzione del rumore. Sentì una scarica di adrenalina che le accelerò all’istante il battito cardiaco. La bocca secca, le mani sudate e d’un tratto l’unica cosa cui riuscì a pensare fu scappare, anche se non c’era alcun luogo dove scappare.

Le luci si accesero e Rachel chiuse automaticamente gli occhi. Sentì un’altra scarica di adrenalina e cominciò a iperventilare. Si costrinse a fare due respiri profondi e si impose di calmarsi. Perdere la testa ogni volta che le luci si accendevano non l’avrebbe aiutata. Aprì lentamente gli occhi in modo che si adattassero alla luce e in quel momento provò un accesso di rabbia, intenso come l’ondata di adrenalina. Rabbia per se stessa, perché si lasciava influenzare dai giochetti di Adam e soprattutto perché era stata così stupida da cacciarsi in quella situazione.

Sentì l’odore del cibo prima ancora di vedere il vassoio. Mangiare era l’ultima cosa che aveva in mente, ma quell’odore cambiò tutto. Lo stomaco si fece sentire e le venne l’acquolina in bocca. A parte una barretta di Mars, l’ultima cosa che aveva mangiato era un panino con bacon, lattuga e pomodoro, forse ventiquattr’ore prima, forse di più. Guardò ansiosa gli altoparlanti negli angoli, spostando la testa dall’uno all’altro. Per una volta ebbe voglia di sentire quella voce.

Senza accorgersene si rosicchiò un’unghia fino ad arrivare alla carne viva, cosa che non faceva da quand’era piccola. Gli altoparlanti rimasero muti. Era un altro giochetto? Una specie di test? Se si fosse avvicinata al vassoio prima di ricevere il permesso, glielo avrebbero portato via? Decise di aspettare due minuti, contando mentalmente i secondi. Se gli altoparlanti fossero rimasti sempre muti, avrebbe corso il rischio e si sarebbe avvicinata. Se le avessero tolto il vassoio, voleva dire che Adam non aveva intenzione di nutrirla e che stava solo facendo altri giochetti mentali con lei.

I due minuti passarono.

Rachel aspettò ancora un po’. Diede un’ultima occhiata agli altoparlanti, si alzò barcollando e si diresse verso la porta girando al largo dalla poltrona. Quando la raggiunse, il vassoio era ancora lì.

C’era un bicchiere d’acqua, un piatto coperto da un grande coprivivande di metallo, le posate e un tovagliolo. Tolse il coprivivande. Era vecchio e pesante, lucido all’esterno e giallo opaco all’interno, d’argento piuttosto che d’acciaio inossidabile. Sotto c’era un piatto colmo di ravioli. Anche la forchetta era più pesante del solito. La girò e vide il marchio. Anche quella era d’argento.

Studiò con più attenzione gli oggetti sul vassoio. Il piatto era di porcellana fine, antica, tanto sottile che ne vedeva le venature e le ombre, il bicchiere di cristallo. Il tovagliolo di lino bianco era stirato e piegato con cura, i bordi perfettamente dritti. I ravioli però erano di quelli in scatola. Rachel guardò la poltrona con le cinghie e le macchie di sangue e poi il vassoio. Provò un senso di dissociazione. Due universi si erano scontrati e lei si trovava intrappolata nel mezzo. Era Alice che cadeva nella tana del coniglio.

Prese un raviolo con la forchetta e lo assaggiò. Dove stava l’inghippo? Quando sarebbe accorso Adam per portarle via il cibo? Ne prese un altro e un altro ancora. Si mise il più possibile comoda con la schiena contro il muro e il vassoio sulle ginocchia, e decise di mangiare fino a saziarsi perché non sapeva quando avrebbe potuto farlo di nuovo.

Posò infine il piatto sul vassoio e si pulì la bocca con il tovagliolo. Una volta finito, non riuscì a togliersi di testa l’idea che si trattasse di un trucco e che ora le sarebbe successo qualcosa di terribile.

Per un po’ rimase seduta con la schiena contro il muro e il pavimento piastrellato sotto il sedere.

Passarono alcuni secondi.

Non successe niente.

Mise a posto le stoviglie e avvicinò il vassoio allo sportello. Si alzò e tornò al materasso. Una voce la costrinse tuttavia a fermarsi su due piedi. Non proveniva dagli altoparlanti e non era di Adam. Era dolce e timida, femminile, non maschile.

«Ti è piaciuta la cena?»