Prologo

L’ultima volta che ho visto mio padre vivo era legato al lettino di un carcere, le braccia aperte come se dovesse essere crocifisso. Ogni richiesta di appello era stata respinta e non avrebbero certo sospeso l’esecuzione in extremis. Aveva una flebo in ogni braccio, le cannule già inserite. Per la procedura ne bastava una, l’altra era di riserva. Un monitor scandiva i battiti del suo cuore: nonostante le circostanze la frequenza era lenta, regolare, di settantacinque al minuto.

Nella stanza adiacente c’era una ventina di testimoni. Genitori delle vittime, funzionari della prigione, un uomo dell’ufficio del Governatore della California in un abito inappuntabile. Si sentivano movimenti e fruscii: si stavano mettendo comodi per lo spettacolo, ma io ne ero solo in parte consapevole. Mio padre guardò attraverso la spessa lastra di plexiglas e mi sentii trafiggere dalla sua occhiata intensa. In quell’istante c’eravamo solo io e lui. Ricambiai lo sguardo, curioso di capire che cosa stesse pensando. Avevo conosciuto e studiato un numero sufficiente di psicopatici per sapere che non si era pentito di quanto aveva fatto, che era incapace di mostrare rimorso per i suoi crimini.

In dieci anni aveva ucciso quindici giovani donne. Le aveva rapite, portate nelle vaste e ondulate foreste dell’Oregon, liberate e dato loro la caccia con un fucile molto potente. Non gli importava un bel niente di quelle ragazze. Per lui non erano altro che giocattoli.

Sostenni il suo sguardo per un po’. Aveva gli occhi di un verde brillante con un alone dorato attorno all’iride, proprio come i miei: erano uno dei molti tratti genetici che ci accomunavano. Guardarlo era come osservare il lungo tunnel buio che conduceva al mio futuro. Eravamo alti entrambi uno e settantacinque, snelli e irritabili, con gli stessi capelli candidi dovuti a un’anomalia genetica comparsa chissà quando tra i nostri antenati. A me erano diventati bianchi poco dopo i vent’anni, a mio padre ancora prima.

Erano tre i motivi principali per cui aveva continuato a uccidere per tanti anni. Primo, la sua intelligenza gli consentiva di stare sempre un passo avanti rispetto ai suoi inseguitori. Secondo, aveva una di quelle facce che scordavi all’istante, che si confondevano nella folla. Terzo, si tingeva i capelli. Non sarebbe bastato avere un volto anonimo se i capelli balzavano subito all’occhio.

Il lieve sorriso che guizzò sulle sue labbra svanì in una frazione di secondo. Era un sorriso crudele, arrogante. Muovendo solo la bocca pronunciò tre parole che mi lasciarono senza fiato. Le aveva rivolte a una parte recondita di me stesso, che tenevo ben nascosta. Doveva aver notato un cambiamento nella mia espressione perché sfoderò un altro sorriso rapido, tagliente, dopodiché chiuse gli occhi per l’ultima volta.

Il direttore del carcere gli chiese se volesse fare una dichiarazione, ma lui si limitò a lanciargli un’occhiata inespressiva. Glielo chiese di nuovo, gli diede quasi un minuto per rispondere e, dato che non reagiva, ordinò con un cenno che iniziasse l’esecuzione.

Per primo fu iniettato il pentobarbital; l’anestetico agì in fretta e in pochi secondi mio padre perse conoscenza. Poi fu la volta del bromuro di pancuronio, che gli paralizzò i muscoli respiratori. Infine, il cloruro di potassio per arrestare il cuore. Sei minuti e ventitré secondi dopo lo dichiararono morto.

Alle mie spalle la madre di una vittima singhiozzava confortata dal marito. Aveva lo sguardo vitreo di chi è sotto farmaci, ma non era la sola: bastava un’occhiata nella stanza per averne conferma. L’eredità che mio padre si era lasciato dietro era duratura, pesante, segnata da un’infelicità che si sarebbe ripercossa a lungo. Il padre di un’altra vittima mormorò che se n’era andato troppo rapidamente, un sentimento condiviso da gran parte dei presenti. Avevo visto le fotografie delle scene del crimine e letto i referti delle autopsie, perciò non avevo intenzione di obiettare. Tutte e quindici le ragazze erano andate incontro a una morte lenta, atroce, l’esatto opposto della sua.

Uscii accodandomi agli altri e raggiunsi il parcheggio. Rimasi seduto per un po’ nell’auto a noleggio, con la chiave nel cruscotto, cercando di liberarmi la mente dalla nebbia. Quelle tre parole continuavano a ronzarmi in testa. Sapevo che si sbagliava, che cercava solo di fottermi il cervello, eppure non riuscivo a scrollarmi di dosso la sensazione che contenessero un briciolo di verità. E in quel caso, chi ero veramente? Costruiamo le fondamenta della nostra vita su terreni sismici e sabbie mobili: nei suoi ultimi istanti mio padre era riuscito a scuotere le mie come uno spaventoso terremoto, distruggendo tutto ciò che ritenevo giusto e vero.

Girai la chiave, inserii la marcia e mi diressi all’aeroporto. Il mio volo per Washington sarebbe partito alle sei e trenta del mattino successivo, ma non lo presi mai. Superai il bivio per l’aeroporto e proseguii fino in Virginia. A essere sincero non avevo fretta. A Quantico non mi aspettavano che la settimana seguente, ma questo non m’impediva di fuggire dalla California il più rapidamente possibile, di continuare a spostarmi.

Il limbo immobile, angosciante della sala d’imbarco era una cosa di cui potevo fare benissimo a meno. I minuti sarebbero diventati ore, le ore giorni, i giorni anni. Era questo che mi ripetevo mentre la lancetta del tachimetro saliva sempre più, ed era vero, malgrado fosse solo un frammento di una verità più ampia. In realtà stavo cercando di eludere le parole di mio padre, ma per quanto lontano andassi o per quanto veloce guidassi non ci sarei riuscito.

Ancora oggi, quasi diciotto mesi dopo, mi tormentano, riaffiorano quando meno me lo aspetto. Il tempo e la memoria hanno alterato quella frase mormorata nella sua cadenza californiana lenta, strascicata, la stessa che usava per ammaliare le vittime. La sento chiaramente, come se mi fosse seduto accanto.

Noi… siamo… uguali.