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Il furgone di sorveglianza era parcheggiato due strade oltre la villa sul fiume di William Trent, abbastanza lontano da non metterlo in allarme al suo rientro e abbastanza vicino da poterla raggiungere in trenta secondi. Sedevo schiacciato al suo interno con Hatcher e Templeton. Il detective sembrava ringiovanito di dieci anni. Lo stress, la tensione, il colorito grigio c’erano ancora, ma in misura più contenuta.

Indossavamo tutti e tre giubbotti di kevlar con la scritta POLIZIA a grandi lettere sul petto. Era un posto stupido per un logo, era come scrivere su un bersaglio. Il kevlar fermava buona parte dei proiettili. Buona parte, non tutti. Il furgone emanava un odore stantio di caffè, di cibo da asporto e di fumo.

Solo un monitor, su cui erano puntati gli occhi di tutti, trasmetteva un’immagine. Non accadeva granché, come testimoniava la telecamera piazzata discretamente di fronte al cancello principale, l’unica via d’accesso e d’uscita. Avevamo una buona visuale del vialetto, della facciata e del cortile di ghiaia deserto.

La casa si sarebbe potuta tranquillamente trovare in un paese del Mediterraneo, in Italia, in Spagna o sulla riviera francese: muri bianchi, tetto di tegole in terracotta e tutt’attorno una foresta di palme. Sorgeva sulle rive del Tamigi e aveva un molo privato a cui era ormeggiato un motoscafo. Trent non lo avrebbe tuttavia usato per fuggire e se lo avesse fatto, non sarebbe andato lontano.

«William Trent ha una passione per i cadaveri» osservò Hatcher. «Quand’era all’università, gli piaceva intrufolarsi nell’obitorio la notte e sezionare i corpi. L’ospedale ha piazzato una telecamera e lo ha colto sul fatto, ma hanno messo tutto a tacere perché temevano ripercussioni. Donare il proprio corpo alla medicina è un conto, lasciarlo nelle mani di un degenerato che lo fa a pezzi per eccitarsi, un altro. A quanto pare, pochi donano il proprio corpo alla medicina: se si diffonde una notizia del genere, non aumenterà di certo la fila.»

«Che cos’altro mi sai dire su Trent?» domandai.

«Corrisponde in pieno al profilo. È un maschio bianco di trentatré anni e viene da una famiglia ricca. Il padre possedeva una catena di supermercati che ha venduto al gruppo Tesco per dieci milioni di sterline. Questo accadeva quindici anni fa. Tre anni dopo lui e la moglie sono morti in un incidente d’auto. Trent ha ereditato tutto.»

«Circostanze sospette?»

Lui scosse la testa. «No. È stato un caso di guida in stato d’ebbrezza, aperto e chiuso. Trent senior aveva un tasso alcolico tre volte superiore a quello consentito, andava troppo veloce e ha perso il controllo della Mercedes. È uscito di strada finendo contro un albero. Nessun altro è rimasto coinvolto. E prima che me lo chieda, malgrado Trent junior avesse un buon movente, non hanno trovato freni rotti o cose del genere.»

«Dove ha frequentato medicina?»

«Al Ninewells Hospital di Dundee. Ci è rimasto per due mesi prima che lo invitassero ad andarsene. Quando gli hanno chiesto perché lo facesse, ha risposto che gli piaceva la sensazione che gli dava tagliare la carne. Voglio dire, quanto devi essere perverso per amare cose del genere?»

«È sposato?» chiesi.

«Da quattro anni. La moglie si chiama Marilyn. E senti un po’ questa: la picchia. È andata un paio di volte alla polizia, ma ha sempre ritirato le accuse prima che il caso finisse in tribunale. Sai come vanno queste cose.»

«Quando è stata l’ultima volta?»

Hatcher prese un pacco di carte e lo sfogliò. «Lo scorso luglio. Aveva il naso rotto, un occhio nero e anche un paio di costole fratturate. Ha iniziato dicendo che era stato Trent, poi ha affermato d’essere inciampata e caduta per le scale. In questo momento in casa c’è una donna. L’abbiamo vista e siamo piuttosto sicuri che sia Marilyn Trent.»

«Si sa cosa sta succedendo nel seminterrato?»

«Purtroppo no.»

«Quindi Trent potrebbe essere là sotto con Rachel Morris.»

«No» rispose Templeton. «È appena arrivato.»

Sul monitor una Porsche nera svoltò a destra e accelerò sul vialetto. Hatcher diede l’ordine. All’esterno, i motori si accesero e gli pneumatici stridettero. Mi alzai e balzai giù dal furgone in un lampo, tallonato da Hatcher e Templeton. Ci precipitammo verso la BMW, salimmo e lei partì a razzo. Le gomme persero momentaneamente aderenza ed emisero un forte stridio che sovrastò per un istante il rombo del motore. Davanti a noi c’erano tre auto con i lampeggianti blu accesi e le sirene spiegate. Templeton si accodò al corteo, imboccammo rapidi il vialetto e inchiodammo nel cortile sollevando una nube di ghiaia. Le tre auto si disposero a ventaglio per bloccare la Porsche.

Scesero sei agenti, tutti con il casco e il giubbotto di kevlar. Erano armati e tenevano le pistole puntate contro William Trent, impietrito di fronte all’ampio portone a due battenti, con le chiavi in mano.

Urlavano uno dopo l’altro la stessa cosa, di inginocchiarsi e di mettere le mani dietro la testa. Eravamo giunti al momento critico: le cose sarebbero andate bene oppure avrebbero preso una brutta piega. La tensione era al massimo e sarebbe bastato che qualcuno premesse un po’ di più il grilletto per spedire Trent in terapia intensiva o all’obitorio.

Lui rimase immobile dov’era, come un coniglio di notte inquadrato dai fari. Gli urlarono di nuovo di inginocchiarsi e per un attimo pensai che avrebbe reagito in modo stupido. Invece si inginocchiò e mise le mani dietro la testa. Due poliziotti gli si avvicinarono di corsa, lo ammanettarono e lo trascinarono verso l’auto più vicina. Trovammo Marilyn Trent in ginocchio in cucina, in preda al panico, accanto al grande frigorifero in stile americano. Stringeva un coltello di quindici centimetri con le mani tremanti e aveva gli occhi sgranati, tanto era tesa, spaventata e sotto pressione.

La cucina era un ambiente freddo, asettico, illuminato da un gran numero di faretti alogeni, con tanto acciaio e cromo. Piastrelle di marmo nero, banchi di marmo nero, armadietti neri. La cucina di un uomo più che di una donna.

Marilyn Trent aveva un livido sbiadito sotto l’occhio sinistro, dovuto all’ultima caduta per le scale o all’ultimo impatto con una porta. Indossava un pigiama composto da pantaloncini e maglietta. Sulle braccia e sulle gambe si vedevano vecchi segni di tagli, una rete di cicatrici fatta da qualcuno che amava incidere la carne più che una serie di tagli paralleli, tipica degli autolesionisti.

Rimasi accanto alla porta insieme a Hatcher e altri due agenti mentre Templeton le si avvicinava cauta. Si mosse piano, con attenzione. Toccò a lei farlo perché era l’unica donna. Marilyn era già abbastanza terrorizzata e impugnava un coltello: un uomo l’avrebbe spaventata. Templeton teneva le mani aperte per mostrarle che non era armata e non rappresentava una minaccia. Parlò con tono pacato, senza interrompersi, con un flusso di parole senza senso volte a rassicurarla. La trattava come se fosse una bambina impaurita o un animale pericoloso. Marilyn Trent si rintanò ancor di più nell’angolo tra il muro e il frigorifero, facendosi il più possibile piccola.

«Lasciatemi in pace» mormorò.

«Ehi, andrà tutto bene» affermò Templeton.

«Vi prego, lasciatemi in pace.»

«Posa il coltello, Marilyn. William non ti farà più del male, te lo prometto.»

Lei guardò il coltello con un’aria sorpresa: sembrava non capire come le fosse finito in mano. Lo lasciò cadere per terra. Templeton continuò ad avanzare molto lentamente, con calma. Scostò con un calcio il coltello che scivolò sul pavimento di marmo, si accovacciò davanti alla donna e l’aiutò a rialzarsi. All’inizio Marilyn resistette, ma grazie alla sua ferma insistenza Templeton ebbe la meglio.

«Signore, deve venire a vedere!»

Marilyn si bloccò all’istante, stupita, e il suo sguardo si mosse in direzione della voce. Guardava il pavimento come se riuscisse a vedere attraverso il marmo nero. Si udì un altro grido. Lasciai di corsa la cucina, con Hatcher alle calcagna. Trovammo la porta dello scantinato e ci precipitammo giù per le scale. Un breve corridoio conduceva a una stanza intensamente illuminata, come la cucina. Anche lì il nero era il colore dominante: pareti, soffitto, pavimento di PVC. Divise da cameriera, uniformi da infermiera, una tuta di pelle rossa con un maschera da bondage coordinata. Scaffali e scaffali con i giocattoli erotici, i gadget e i DVD di Trent. Il televisore a muro era enorme, almeno sessanta pollici. L’aria nella stanza era stantia, come in uno spogliatoio. Il puzzo di sudore, sangue e sperma era soffocante.

«A quanto sembra abbiamo trovato il nostro uomo» osservò Hatcher e per una volta quasi sorrise.