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Rachel era eccitata come al primo appuntamento, o quasi. Non era più un’adolescente, perciò l’eccitazione si mescolava a un pizzico d’ansia. Sapeva che cosa significasse restare delusi, che la realtà era di rado all’altezza del sogno e che la speranza prevaleva sempre. Conosceva lo strazio di avere il cuore a pezzi. Il vestito rosso la fasciava nei punti giusti, ed era una bella sensazione. Il suo profumo preferito le arrivava ogni tanto alle narici, e anche questa era una bella sensazione.
Lasciò la stazione della metropolitana uscendo nel freddo della sera. La neve cadeva più rada e i fiocchi scendevano pigri, mulinando e volteggiando, spinti dal vento. Rachel si era innamorata della neve da bambina e quel sentimento non era mai cambiato. La neve trasformava il mondo in un luogo magico e romantico. Il giorno dopo sarebbe diventata fanghiglia, ma per il momento era tutto perfetto. Si strinse di più nel cappotto e si affrettò. La borsa le batteva sul fianco al ritmo dei passi.
Il bar in cui avevano stabilito di incontrarsi era grande e anonimo. Sgabelli alti di legno al banco, sedie e tavoli nel centro della sala, comodi divani di pelle con tavolini ai margini. Rachel scrutò i clienti. Erano sparpagliati qua e là, perlopiù in gruppi di tre o quattro. C’erano solo due bevitori solitari. Spostò rapida lo sguardo dall’uno all’altro. Tesla aveva circa trentacinque anni e i capelli castani corti. Aveva detto che avrebbe indossato un trench lungo nero di lana. L’unica persona che gli assomigliava un po’ era seduta su uno sgabello al banco. Il trench corrispondeva alla descrizione, ma l’uomo aveva almeno vent’anni di più.
Rachel ordinò una limonata. Aveva intenzione di non bere alcolici almeno all’inizio, e poi di alternare i drink: una limonata per ogni bicchiere di vino. Voleva fare una buona impressione e doveva quindi restare lucida. Se la serata fosse andata bene, forse Tesla avrebbe voluto rivederla. Sperava davvero che fosse l’inizio di qualcosa. Un nuovo inizio, un nuovo capitolo.
Bevve un sorso e guardò l’orologio. Era in anticipo di dieci minuti. Trovò un tavolo da cui si vedeva bene la porta e si sedette ad aspettare sul divano di pelle. Era appartato, intimo e accogliente.
Le otto arrivarono e passarono. Arrivarono anche le otto e venti. Alle otto e mezzo aveva i nervi a fior di pelle. Andò al banco e ordinò un bicchiere di vino rosso. Anche le nove arrivarono e passarono. Da uno, i bicchieri di vino divennero due. Rachel guardò l’uomo con il trench nero. Poteva essere lui? Tesla aveva mentito sull’età? Il cliente non le prestò alcuna attenzione, non si era nemmeno accorto della sua presenza, concentrato com’era sul bicchiere che aveva davanti.
Guardò di nuovo l’orologio e controllò il cellulare. Forse era dovuto rimanere in ufficio o forse la neve l’aveva bloccato, oppure era stato coinvolto in un incidente ed era in terapia intensiva, collegato a qualche macchina salvavita.
Alle nove e un quarto non c’erano più scusanti, e Rachel si sentiva arrabbiata e stupida. Era il primo appuntamento dopo tanto e le avevano dato buca. Prese il telefono e verificò di nuovo i messaggi. Niente SMS, niente telefonate perse. Non che se le aspettasse. Aveva creduto che Tesla fosse diverso, invece non era così. Ci aveva ripensato e non si era neanche preoccupato di avvertirla.
Pensò di ordinare un altro bicchiere di vino, poi un’intera bottiglia, ma non avrebbe risolto niente. Avrebbe solo peggiorato le cose. L’indomani si sarebbe svegliata con il mal di testa, la sua esistenza sarebbe stata il solito schifo e Jamie il più grande errore della sua vita.
Finì il vino, si mise il cappotto, prese la borsa e uscì. I marciapiedi erano ancora bianchi, ma il mondo aveva perso quell’aura magica, romantica. Adesso era desolato e vuoto. Non nevicava più, però il vento soffiava ancora. Le sferzava la faccia e le pungeva la pelle.
L’aria fredda la investì e al posto di due bicchieri le sembrò di averne bevuti quattro. La mente le si annebbiò e gli arti le parvero più leggeri. All’improvviso si sentì un’idiota; aveva creduto che le potesse accadere qualcosa di bello, invece sarebbe stata una serata da dimenticare molto in fretta.
Guardò a destra e a sinistra. Non c’era traccia di Tesla, non c’era traccia di nessuno. Girò a destra e si diresse verso la stazione della metropolitana. Ora desiderava solo andare a casa e raggomitolarsi nel letto, al caldo e al sicuro. Qualcuno gridò alle sue spalle. Pur attutita dalla neve la voce risuonò forte nel silenzio. Rachel si voltò e vide un uomo a una trentina di metri di distanza. Aveva le mani sui fianchi come se avesse corso e cercasse di riprendere il fiato.
Notò subito il trench. Nero, lungo fino al ginocchio. Era troppo buio per distinguere il colore dei capelli ma pensò fossero castani. O meglio, se lo augurò. L’uomo si diresse verso di lei e quando ebbe percorso una quindicina di metri, Rachel vide che stava sorridendo. Cinque metri dopo si accorse che aveva un bel sorriso: affascinante, rilassato, cordiale. Perfetto. Un istante dopo le fu davanti e non poté credere alla sua fortuna. Era così bello che avrebbe potuto essere un attore. Sarebbe stato fantastico sul grande schermo.
«Mi dispiace per il ritardo» esclamò. «Oggi al lavoro è stata una follia e per giunta sono riuscito a perdere il cellulare. Non avevo modo di contattarti per dirti che sarei arrivato tardi. Sono contento di averti raggiunta in tempo.»
Aveva un accento colto e raffinato, una voce profonda e sexy. Guanti di pelle, sciarpa nera di lana, scarpe eleganti. Occhi castani.
«Va tutto bene» affermò lei.
«Nient’affatto. Avrai pensato che ti avessi dato buca.»
Rachel sorrise. «In effetti.»
«Devo farmi perdonare. Sei mai stata all’Ivy?»
«Non bisogna prenotare con sei mesi d’anticipo?»
«Conosco uno che ci lavora e immagino che con questo tempo qualche cliente abbia disdetto. Ascolta, ho parcheggiato dietro l’angolo. Permettimi di offrirti la cena, è il minimo che possa fare.»
«D’accordo. Ma prima devo chiederti una cosa.»
«Spara.»
«Qual è il tuo nome? Il tuo vero nome?»
Sorrise di nuovo, cordiale e affascinante come prima. «Adam.»
«Be’, Adam, io mi chiamo Rachel ed è un piacere conoscerti finalmente.»
Gli tese la mano e lui gliela strinse. Aveva una stretta decisa ma delicata, e quando la toccò sentì una scarica in tutto il corpo.
La Porsche era parcheggiata in una strada laterale lì vicino. Adam si accigliò quando trovò una multa per divieto di sosta sotto i tergicristalli. La sfilò e se la cacciò in tasca.
«Bella giornata…» disse scuotendo la testa.
Le tenne la portiera e lei si sedette sul sedile del passeggero. Si sentiva elegante e sofisticata, come Audrey Hepburn in uno di quei vecchi film in bianco e nero. Jamie non le apriva mai la portiera. Adam la richiuse e lei restò avvolta dall’odore della pelle e dal lieve profumo del suo dopobarba. Sorrise tra sé. Era bello e con un gran senso dell’umorismo. Splendido.
Adam entrò e chiuse la portiera. Rachel non lo vide quasi muovere il braccio. Scorse solo una macchia indistinta alla periferia del suo campo visivo. Sentì una puntura nella coscia e si guardò attonita la gamba, poi fissò Adam. A quel punto notò la siringa e vide il suo sguardo affascinante diventare crudele. Afferrò la maniglia della portiera e la premette invano. Cercò la sicura per aprirla ma si accorse che era stata rimossa. Le sembrava di avere gli arti di piombo e non riusciva a muovere le braccia. Un peso micidiale la schiacciava sul sedile. La sua mente stava urlando ma dalla bocca non uscì niente.
«Benvenuta Numero Cinque» mormorò Adam.