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Simon Stephens, professione investigatore privato, non aveva «uffici», solo un locale in affitto sopra un negozio di tatuaggi in una squallida via di una zona degradata di Tottenham. Suonai il campanello e attesi. Nessuna risposta. Aspettai dieci secondi e lo suonai di nuovo, tenendolo premuto abbastanza da irritarlo se era in ufficio o da svegliarlo se dormiva sulla scrivania. Nessuna risposta. Passai allora al piano B. Templeton mi vide estrarre l’astuccio di pelle con i grimaldelli e bofonchiò qualcosa tra sé.
«Se vuoi, puoi attendere in macchina» dissi.
«Sì, certo.»
Per scassinare la Yale dell’ingresso impiegai venticinque secondi, ma la serratura di sicurezza a cinque pistoncini dell’ufficio era più robusta e impegnativa. Inserii il tensore, uno strumento a T fatto di acciaio inossidabile di prima qualità, poi usai il palpatore per spingere i pistoncini.
Questo tipo di serratura richiedeva pazienza, sensibilità e pratica. Il primo pistoncino si mosse, seguito dal secondo. Agii lentamente, imponendomi di non farmi prendere dalla fretta. Se ti comportavi come se avessi tutto il tempo a tua disposizione, riuscivi ad aprire una serratura del genere in un paio di minuti, se ti agitavi potevi impiegare anche tutto il giorno. Templeton era alle mie spalle e osservava attentamente, trattenendo il fiato senza accorgersene. L’ultimo pistoncino si sollevò e la serratura scattò.
«Un gioco da ragazzi» esclamai.
«Mi hai convinta» replicò Templeton. «Mi farò installare la porta di un caveau a casa.»
«Non ti servirebbe. Se qualcuno è deciso a entrare, ci riuscirà.»
«Più rassicurante di così non si può! Ad ogni modo, come hai imparato?»
«L’FBI crede fermamente nel principio “conosci il tuo nemico”. Ritengono che, se riesci a pensare come lui, ti sia più facile prenderlo.»
«E la linea dove si traccia?»
«Be’, non ho mai scorticato un essere umano, ma un maiale morto sì.»
«Stai scherzando, vero?»
Risposi con un sorriso e lei scosse la testa.
«Sai una cosa, Winter, facciamo finta che questa conversazione non sia mai avvenuta.»
L’ufficio di Stephens era meticolosamente ordinato, lo spazio ben sfruttato. La scrivania davanti alla finestra era di legno vero anziché di laminato. Era vecchia e graffiata; probabilmente veniva da un negozio di mobili usati. C’era un computer: era da tavolo, non un laptop, comunque di ultima generazione. La poltrona era un modello presidenziale economico in similpelle.
Sulla parete davanti alla scrivania c’era un orologio, utile per calcolare le ore da fatturare, su un’altra parete una stampa di Picasso. Le tende erano semichiuse in modo da far entrare la luce ma da ridurre al minimo il riverbero del sole. Non che quel giorno fossero servite. Era ormai buio, perciò Stephens era fuori e sarebbe tornato nel giro di poco oppure era già andato a casa.
Nell’angolo c’era un attaccapanni a stelo, il che mi disse più di qualsiasi altra cosa sul suo conto. Era un maschio bianco sotto la sessantina che da bambino aveva guardato troppi polizieschi in bianco e nero di serie B oppure un trentenne dalla fervida immaginazione che credeva di vivere in un poliziesco in bianco e nero di serie B. Dopo aver dato un’occhiata all’ufficio, conclusi che la seconda alternativa fosse più probabile.
Io mi occupai dello schedario, Templeton del computer. Il mobile era grigio, d’acciaio, alto circa un metro e venti, con tre cassetti profondi. Quello superiore era pieno di cartelline verdi nuove, disposte con cura in ordine alfabetico, i nomi dei clienti scritti con la grafia ordinata di Stephens. Aveva usato sempre la stessa penna nera; aggiunsi pertanto al profilo «carattere anale ritentivo».
Comprendeva le lettere dalla A alla G. Estrassi un paio di dossier a caso: due casi di infedeltà. Il primo riguardava un marito, il secondo una moglie. Contenevano fotografie sgranate scattate con il teleobiettivo e trascrizioni di conversazioni. Quelle delle conversazioni online nella cartella dell’uomo mi fecero riflettere. Rimisi a posto i dossier, andai dritto al cassetto centrale e controllai la J e la M pensando a Jamie Morris. Niente in entrambi i casi. Non c’era niente nemmeno sotto la lettera R per Rachel.
«Come va?» chiesi a Templeton. Era seduta sulla poltrona di similpelle con il cellulare premuto all’orecchio, in modo da poter usare ambedue le mani sulla tastiera. Sumati Chatterjee le stava facendo un corso accelerato per insegnarle a entrare in un PC senza cancellare il disco fisso.
«Ci sono quasi» rispose. «Okay, sono dentro.»
La ringraziò, la salutò in fretta e chiuse la chiamata. Mi avvicinai al tavolo e mi appollaiai sul bordo.
«Trovato niente?» domandò.
«No.»
Mi fissò con quei fantastici occhi azzurri. «Non mi sembri molto abbattuto» commentò.
«In parte me l’aspettavo.» Indicai con un cenno lo schermo. «Parliamo di meno e lavoriamo di più.»
«Non ti aspetti di trovare niente anche qui, vero?»
«Diamo comunque un’occhiata.»
Controllammo in tutti i posti ovvi in cerca di riferimenti ai Morris e quando non trovammo nulla, passammo ai posti meno ovvi. Per essere certi che non ci sfuggisse nulla, Templeton chiamò Sumati ma anche lei era a corto di idee.
In quell’istante la porta di sotto si aprì e si richiuse. Templeton balzò in piedi come se avesse preso una scossa da duemila volt. Mentre pestava furiosa sul mouse per chiudere il computer, mi sedetti sulla poltrona ancora calda e ascoltai i passi pesanti di Stephens sulle scale. Era grosso oppure stanco dopo una lunga giornata trascorsa a fare il segugio.
«Rilassati» dissi.
«Rilassarmi!» Guardò la finestra, la porta e di nuovo la finestra. «È Stephens. Dobbiamo andarcene.»
«Escluderei la finestra. Siamo al primo piano. Se salti, ti spezzerai il collo.»
«Come fai a essere così calmo?»
«Devo parlare con Stephens e questo mi eviterà il fastidio di andarlo a cercare.»
«Proprio non capisci, Winter, perderò il lavoro.»
«In tal caso potrai sempre passare al settore privato.»
«Non è il momento di scherzare» ribatté. «È una cosa seria, rischio la galera.»
«Non perderai il lavoro. E non finirai in galera.»
Mi dondolai sulla sedia, posai i piedi sul tavolo e sorrisi. Lei mi guardò truce, poi fissò ancora una volta la finestra come se la ritenesse sempre la via migliore di fuga. Stephens aveva raggiunto la sommità delle scale e si era fermato davanti alla porta. Pochi secondi dopo sentimmo il rumore della chiave nella toppa, seguito da un attimo di esitazione. Probabilmente si stava chiedendo perché la porta fosse aperta o se per caso si fosse dimenticato di chiuderla quand’era uscito.
Alla fine si aprì lentamente.