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Quando raggiungemmo lo svincolo nove della M1, imperversava ormai una bufera. Avevo ridotto la velocità a centodieci, ma andavo ancora troppo veloce vista la situazione. Negli ultimi due, tre chilometri non avevo detto una parola perché avevo bisogno di tutta la concentrazione possibile per evitare che ci ammazzassimo.

Lasciata l’autostrada, le strade peggiorarono e la neve divenne più fitta. Nonostante andassi più piano, rischiai di perdere il controllo della Maserati due volte. Non era adatta per quelle condizioni: era concepita per strade dritte e larghe. Ora ci sarebbe servito un quattro per quattro, non un’auto sportiva.

Le siepi alte avevano trasformato la stradina che conduceva a Waverley Hall in uno stretto tunnel e il vento aveva accumulato la neve sul lato destro, dove si era formato un muro considerevole. Anche il fondo era molto innevato. La Maserati avanzava a meno di venti all’ora, cercando di far presa sullo strato di ghiaccio sottostante, e i tergicristalli combattevano una battaglia persa. Se la bufera fosse continuata, nel giro di mezz’ora la strada sarebbe diventata impraticabile.

Waverley Hall era circondata da un muro alto e nascosta da abeti che si stagliavano spettrali nella neve. Passai lentamente accanto all’ingresso e sbirciai al di là del cancello sforzandomi di distinguere, oltre la coltre di fiocchi, il paesaggio bianco indistinto. Identificai a stento il viale che attraversava il boschetto per una ventina di metri prima di piegare bruscamente a destra. Corrispondeva alla fotografia aerea che avevo ricavato da Internet.

L’approccio migliore era avvicinarsi alla casa da est. Davanti saremmo stati allo scoperto. C’erano un cortile di ghiaia per parcheggiare le macchine e un prato incolto. Troppo spazio aperto. Saremmo diventati due facili bersagli. Lo stesso valeva per il retro. La proprietà si estendeva per quattrocento metri, fino agli alberi che contrassegnavano il confine sud. Anche là troppo spazio aperto. Il lato ovest era difficilmente accessibile, il che ci lasciava soltanto quello est.

Arrivai all’angolo nordest del muro e piantai la Maserati in mezzo alla strada. Mi chinai nel vano piedi, afferrai la Samsonite e la aprii. L’odore d’olio per armi mi investì non appena sollevai il coperchio.

Donald Cole aveva fatto un buon lavoro. La Colt calibro 45 era una delle pistole che preferivo perché era affidabile al cento per cento. Non al novantanove o al novantotto: al cento per cento. Nel 1911 l’esercito statunitense aveva collaudato diverse pistole e la Colt 45 era stata l’unica a sparare seimila colpi senza il minimo inconveniente. Quando si surriscaldava, la immergevano in un secchio d’acqua fredda e riprendevano a sparare. Era inoltre comoda da maneggiare e facile da nascondere. Un’arma davvero straordinaria.

Estrassi il caricatore e controllai le munizioni: calibro 45 a punta cava. I proiettili da nove millimetri penetravano più in profondità, ma quelli calibro 45 avevano un potere d’arresto molto maggiore. Quando colpivano un corpo solido, tutta l’energia cinetica si trasmetteva ad esso; le cartucce da nove millimetri tendevano invece ad attraversarlo. Si diceva che le munizioni calibro 45 a punta cava venissero fermate da una coperta militare bagnata. Immaginando che al posto della coperta ci fosse un corpo, si capiva perché le preferissi a quelle da nove millimetri.

Esaminai con cura le pistole e premetti un paio di volte il grilletto. Avrei voluto sparare qualche colpo per accertarmi che funzionassero, ma era un desiderio irrealizzabile. Rimisi il caricatore nella seconda pistola, azionai il carrello otturatore e inserii un proiettile nella camera.

Il lato negativo di tenere un proiettile nella camera era che poteva partirti un colpo per sbaglio, ma era un rischio che ero pronto a correre. Se dovevi usare una pistola, non era il caso di metterti ad armeggiare all’ultimo momento. In altre parole, se la situazione fosse precipitata, ogni secondo sarebbe stato importante. Inserire adesso un proiettile nella camera avrebbe potuto fare la differenza tra la vita e la morte di qualcuno, dopo.

Infilai una Colt nella cintura dei jeans, sulla schiena, e un caricatore di riserva nella tasca posteriore. Porsi l’altra a Hatcher, che si limitò a fissarla.

«È una pistola» feci.

«Lo so.»

«Sai come si usa, vero?»

«Ovviamente.»

«La punti e premi il grilletto. E continui a premerlo finché esaurisci i proiettili.»

«So come si spara con una dannata pistola, Winter.»

«Starei meglio sapendo di avere le spalle coperte.»

Hatcher prese la Colt dalla mia mano e scendemmo dalla Maserati. Il vento era così forte che mi tolse il fiato. Ci incamminammo nella bufera a testa china. Hatcher restò sempre alla mia destra, una presenza spettrale che sembrava fluttuare nella neve.

Fu davvero un’impresa. Non sentivo né le mani né i piedi e gli occhi mi bruciavano. Seguimmo il muro, alto più di due metri, lungo il perimetro est della proprietà. Sullo spiovente si erano già accumulati alcuni centimetri di neve. Contai mentalmente i metri e quando arrivai a centocinquanta, mi fermai. Se i miei calcoli erano esatti, eravamo perpendicolari alla casa.

Hatcher mi sollevò e io mi arrampicai sul muro. La neve mi bagnò i jeans ghiacciandomi il culo. Mi chinai, afferrai la mano di Hatcher e lo aiutai a salire.

Ci calammo dall’altra parte, tra gli alberi, il che mi confortò perché corrispondeva a quanto avevo visto al computer. Significava inoltre che avevamo una probabilità maggiore di avvicinarci alla villa non visti. Gli alberi erano in genere spogli, ma c’erano alcuni sempreverdi. I tronchi alti e grossi ci riparavano abbastanza dal vento, rendendolo sopportabile, e quell’improvviso silenzio mi sembrò strano: era come se qualcuno avesse premuto un interruttore e spento la bufera. Faticammo a superare il fitto sottobosco: i rami s’impigliavano negli abiti, rampicanti e radici rischiavano di farci inciampare.

La zona alberata proseguiva per una trentina di metri e terminava davanti a un muro alto meno di due metri. Mi aggrappai alla sommità affondando le dita gelate nella neve, mi tirai su e scrutai nel buio.

A venti metri c’era la porta di una cucina. Per raggiungerla avremmo dovuto attraversare un’area usata un tempo come orto ma ormai abbandonata, circondata da muri su tre lati e dalla casa sul quarto. Al primo piano c’erano due piccole finestre, entrambe buie. Non vidi segni di vita dietro i vetri, ma per sicurezza le osservai ancora per qualche secondo. Una volta oltre il muro, saremmo stati facili bersagli. Saltai giù e informai Hatcher.

«Sei pronto?» chiesi.

«Più che mai.»

Hatcher aveva paura ma era un bene. La paura avrebbe acuito i suoi riflessi. Anch’io ero spaventato. Se in quell’istante mi fossi guardato allo specchio, avrei visto lo stesso sentimento sul mio volto.

Scavalcammo il muro e ci precipitammo verso la villa. Hatcher era esattamente alle mie calcagna. Ci ritrovammo di nuovo in uno spazio aperto, in mezzo a una bufera più violenta di prima. Mi sembrava di avere i polmoni pieni di ghiaccio e la neve mi pungeva la pelle. Quei venti metri mi parvero venti chilometri e mi convinsi che mi sarei preso una pallottola in corpo: mi avrebbe colpito e senza neanche accorgermene sarei crollato a terra, imbrattando di rosso la neve.

Raggiungemmo la casa e ci appiattimmo contro il muro. Hatcher aveva il respiro affannoso e un colorito vagamente paonazzo.

«Dovrei andare più spesso in palestra» osservò.

«Vuoi dire che ti piacerebbe sapere com’è fatta una palestra.»

«Fottiti, Winter» rispose con un lieve sorriso.

Provai la porta. Era chiusa. Non c’erano chiavi di riserva nei posti consueti, perciò mi scaldai un po’ le dita con il fiato, presi i grimaldelli e mi misi al lavoro. Impiegai un paio di minuti a scassinare la serratura. Era vecchia e massiccia, da tempo non veniva oliata e le mie dita non erano molto agili. Estrassi la Colt dalla cintura, la impugnai ed entrai lasciando una scia di impronte bagnate sulle piastrelle.

La cucina era grande, pulitissima, con il pavimento di pietra ed elettrodomestici recenti ma di foggia antiquata. Sui ripiani c’erano alcune scatole di cibo. A prima vista sembravano disposte a caso, in realtà notai un criterio: zuppe in un gruppo, fagioli cotti in un altro, pasta in un altro ancora.

Ogni gruppo era impilato con cura, tanto da ricordarmi i quadri di Andy Warhol. Tutto era in perfetto ordine. Non c’erano piatti sporchi nel lavandino né confusione in giro. Nell’aria aleggiava un odore d’arancia e di candeggina. Mentre mi guardavo attorno, mi balzarono in mente tre lettere: DOC. Disturbo ossessivo-compulsivo.

Rimasi immobile nel centro del locale, con la neve sciolta che mi colava sul viso e sugli abiti, ascoltando con attenzione. I rumori che udimmo erano quelli tipici di una casa vecchia: i borbottii e le vibrazioni causate dalle bolle d’aria nei tubi dell’acqua, qualche cigolio, il ronzio del frigorifero.

Non c’erano rumori di esseri viventi.

La cucina aveva una sola porta. Mi avvicinai con cautela, distribuendo il peso con la massima uniformità possibile a ogni passo e lasciandomi sempre dietro una scia di impronte. Hatcher si mosse silenzioso come un gatto: sapevo che mi seguiva solo perché lo sentivo respirare. Arrivammo alla porta e ci bloccammo di colpo udendo un rumore al piano di sopra.

«Idee?» bisbigliò Hatcher.

Scossi la testa, accostai un dito alle labbra, girai la maniglia e aprii la porta lentamente, con calma. Uscii in corridoio muovendo la pistola in orizzontale e in verticale per coprire tutte le direzioni, come se fossi a Hogan’s Alley a Quantico. Hatcher era sempre alle mie spalle, anche lui con la pistola in mano. Mi fermai ad ascoltare, concentrato sui piani superiori.

Sentimmo un altro rumore, ma stavolta non ci furono più dubbi. Un urlo ti penetra nella testa come nessun altro suono. Era un urlo femminile, prolungato e carico di dolore.

Scattammo come atleti allo sparo dello starter. Qualcuno stava soffrendo ed era nostro dovere salvarlo. Entrammo in un atrio spazioso e ci dirigemmo verso le scale, facendo i gradini a due a due. In cima svoltammo a destra e imboccammo un corridoio.

Dietro alla porta in fondo c’era una luce accesa. Più ci avvicinavamo, più forte diventava l’odore d’ospedale. La porta era socchiusa. La spalancai con una spallata e questa sbatté contro il muro. Mossi la pistola in tutte le direzioni. L’adrenalina mi scorreva a fiumi nelle vene e sentivo il dito pulsare sul grilletto. Scrutai la camera notando ogni dettaglio.

L’espressione sconvolta di Catherine Grosvenor, la bocca aperta dalla sorpresa.

Le cinque fedi sulla mano del manichino.

Rachel Morris legata alla sedia, viva, in grado di respirare e senza un dito.

Gli schermi TV.

Uno mostrava Templeton. Era nuda fino alla vita e legata a una poltrona. Le avevano tagliato la maglietta, che giaceva a brandelli per terra. Accanto a lei c’era Adam con un grande coltello da caccia. Templeton era malmessa, coperta di lividi là dove l’aveva picchiata. Dalla ferita di quasi dieci centimetri che le andava dall’estremità dello sterno all’ombelico sgorgavano rivoli di sangue. Era cosciente ma a stento.

«Microfoni» disse Catherine Grosvenor. «Adam, la polizia è qui. Sai cosa fare.»

Lui si avvicinò a una telecamera e la guardò. Sullo schermo il suo viso apparve largo e sembrò fissare proprio me. Ricambiai l’occhiata. Aveva un volto proporzionato, che ispirava fiducia, e uno sguardo allegro. Non aveva le sembianze di uno psicopatico, ma in fondo neanche mio padre le aveva. Né Bundy, Dahmer o John Wayne Gacy. Non le avevano mai.

Guardai Catherine Grosvenor. «Gli dica di posare il coltello.»

«Devo posare il coltello altrimenti che succede?» La voce di Adam echeggiò dagli altoparlanti sul muro. Il volume era tanto alto da deformare il suono.

«Posa il coltello altrimenti sparo a tua madre.»

Lui scoppiò a ridere. «Come se ne avessi il coraggio.»

Premetti il grilletto.