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«Svegliati, Numero Cinque.»

Rachel aprì a fatica gli occhi e vide Adam che le sorrideva. Odiava molte cose di lui, soprattutto quel sorriso. Aveva mangiato tutta la pasta e anche se le ultime forchettate le avevano fatto venire la nausea, aveva buttato giù tutto per assumere l’intera dose del farmaco. Fuggire per qualche ora da quell’inferno le era sembrata una buona idea, ma in realtà non era stato così. Il sonno indotto dai medicinali non è come quello vero, ma è più simile a un’intossicazione alcolica. Non ti svegli ricaricato, ma anzi, ti senti uno straccio e perdi la nozione del tempo.

Rachel si ricordava di essere tornata al materasso, di essersi infilata sotto le coperte e poi, fino a quel momento, più nulla. Si sentì ingannata e pensò che non avrebbe dovuto mangiare. Aveva la testa ovattata e gli arti pesanti. Le pareva d’essere staccata dal suo corpo e aveva difficoltà a pensare in modo lucido. Il cervello inviava messaggi che non arrivavano a destinazione.

«Avrai sete, Numero Cinque.»

Lei annuì. Adam le avvicinò alle labbra una bottiglia d’acqua da due litri e le fece cenno di bere. Le passò per la mente che potesse essere drogata, ma pensò che non importava. Bevve avidamente un sorso e un altro ancora. Adam, a quel punto, gliela allontanò.

«Numero Cinque, bevi lentamente.»

Gliela avvicinò di nuovo e lei bevve un altro sorso, stavolta più lentamente. Non sembrava adulterata, ma chi poteva dirlo? Aveva sentito parlare del Rohypnol, ma non sapeva se fosse insapore. La sua esperienza nel campo dei farmaci si limitava ai blandi analgesici e a qualche medicinale prescrittole dal medico. Adam tappò la bottiglia e le rivolse il suo affascinante sorriso.

«Ho deciso quale sarà la tua punizione» disse.

Rachel sentì l’acqua gorgogliarle nel ventre. «Ti prego, non farmi del male. Farò tutto ciò che vuoi.»

«Lo so.»

«Tutto» ripeté.

«La negazione, la rabbia e ora il patteggiamento» osservò lui. «Te la stai cavando bene, Numero Cinque. Le altre sono arrivate alla fase del patteggiamento molto prima. Poi c’è quella della depressione, che tende a essere la parte più lunga, e infine c’è l’accettazione. Non vedo l’ora di spezzarti.»

«Ti prego, non farmi del male.»

Si detestò per averlo supplicato, ma non riuscì a evitarlo. Avrebbe voluto perdere di nuovo i sensi, scomparire nel buio. Adam era là per punirla e non c’era niente che potesse fare per fermarlo. Era l’ora della vendetta.

«Numero Cinque, siediti in poltrona.»

Quando si alzò traballante in piedi la stanza prese a ondeggiare. Si appoggiò al muro per trovare stabilità, chiudendo gli occhi finché il capogiro passò. Fece quindi un lungo respiro e si incamminò verso la poltrona. Adam la seguì con lo sguardo e lei soffocò l’impulso di voltarsi a guardarlo. Non voleva dargli quella soddisfazione.

Aveva quasi raggiunto la poltrona quando incespicò e cadde. Cercò di attutire la caduta con le braccia, ma le sue reazioni troppo lente la fecero crollare con la faccia all’ingiù. Il tonfo tremendo della sua testa contro le piastrelle fu accompagnato da un dolore improvviso, lancinante, che la lasciò senza fiato. Quando si girò, Adam era accucciato accanto a lei e le stava studiando il volto. Allungò la mano per toccarle il naso e lei si ritrasse.

«Sta’ ferma.»

Rachel s’immobilizzò. Adam sembrava diverso. La sua solita padronanza di sé, la sicurezza, l’arroganza erano svanite. Sembrava preoccupato, e non l’aveva chiamata Numero Cinque. Era la prima volta da quando si erano conosciuti che la trattava come una persona. Adam allungò la mano e Rachel si costrinse a stare ferma. Le passò le dita sul naso controllandolo con cura. Aveva mani morbide, come se non avesse mai lavorato in vita sua.

«Sei fortunata. Non è rotto. Numero Cinque, devi stare più attenta in futuro.» La sicurezza e l’arroganza erano tornate.«La poltrona» disse.

Rachel fece tre tentativi prima di riuscire ad alzarsi. Non voleva strisciare, era una questione di principio. Voleva conservare anche il più piccolo brandello di orgoglio e di dignità. Avanzò con cautela, un passo dopo l’altro. Più di una volta rischiò di cadere, ma in qualche modo proseguì.

Raggiunse la poltrona e vi si buttò sopra. Adam la legò. Gambe, braccia, testa. Verificò le cinghie una a una, le strinse bene in modo che fossero ben salde e se ne andò. Tornò con il monitor cardiaco, lo accese, le applicò la sonda al dito e se ne andò di nuovo. I bip rimbalzavano sulle pareti, lenti e costanti. Le ultime tracce del sedativo che aveva in corpo tenevano sotto controllo il polso: se non fosse stata drogata, sarebbe stata a rischio di infarto.

«È una brutta cosa?»

Rachel cercò di guardare al di sopra della spalla per vedere chi avesse parlato, ma le cinghie riducevano i suoi movimenti a una serie di scatti spastici. Era la voce di una donna, di quello era certa. Eve era sgattaiolata là dentro? Stava quasi per chiamarla quando si rese conto che quella che aveva udito non era la voce di Eve, bensì la sua. Non riusciva a credere quanto vicina fosse stata a chiamarla per nome. Sarebbe stata una rovina per Eve, ma anche per lei. Che cosa avrebbe fatto Adam se avesse scoperto che parlavano tra loro? Le avrebbe picchiate? Avrebbe impedito a Eve di portarle da mangiare?

Guardò la telecamera più vicina e s’immaginò Adam seduto in una stanza che la osservava mentre strattonava le cinghie, che la ascoltava mentre a poco a poco perdeva il controllo. Fece un profondo respiro, contò lentamente fino a dieci e si disse di tornare in sé. Passò un po’ di tempo. Quanto, non lo sapeva. Si sforzò di tener conto dei minuti e dei secondi, ma aveva la mente troppo annebbiata.

Sentì in lontananza il rumore dei passi di Adam e soffocò le lacrime. La gola si seccò e le venne la nausea. Il rumore aumentava leggermente a ogni passo. Quando scese nel seminterrato, i passi si fecero più nitidi e presero echeggiare contro le piastrelle.

Udì a quel punto altri rumori: lo sferragliare degli oggetti sul carrello metallico, il cigolio delle ruote di gomma sul pavimento.

Adam attraversò la stanza e si fermò con il carrello davanti alla poltrona, piazzandolo in modo che Rachel vedesse tutti gli strumenti. Lei cercò di non guardare, ma non poté farne a meno. Vide la siringa, i tubi di gomma, il ferro da maglia con la punta annerita, il coltello che aveva usato l’ultima volta. Era stato ripulito dal sangue e la lama brillava di nuovo, ammiccava sotto le luci alogene.

«Numero Cinque, non avresti dovuto tentare di fuggire.»

«Mi dispiace» sussurrò Rachel.

«Non è vero. Ma te ne pentirai.»

Adam le legò il laccio attorno al braccio e le picchiettò una vena. Vi infilò l’ago, premette lo stantuffo e tolse il laccio. Il bip bip del monitor cardiaco aumentò, ora i battiti erano superiori a cento, e Rachel si sentì pervadere da un senso d’euforia. Stavolta però sapeva che cosa sarebbe accaduto, perciò l’euforia era mista al terrore. Faceva respiri bruschi, brevi, le sembrava di avere la pelle elettrica.

Guardò Adam prendere un coltello e tenerlo in equilibrio con la punta all’ingiù, sull’indice. Lo mosse in avanti all’indietro in modo che le luci si riflettessero sulla lama. Sorrise, scosse la testa e lo posò con cura sul carrello. Poi prese il ferro da maglia e le sfiorò delicatamente la guancia con la punta annerita. Rachel strinse gli occhi e piegò la testa all’indietro il più possibile. Adam rimise anche il ferro da maglia sul carrello e a quel punto riaprì gli occhi.

«Forse la prossima volta» disse.

Prese un attrezzo lungo una ventina di centimetri. Aveva una punta acuminata e sembrava vecchio. All’altra estremità era piatto, come se dovesse essere usato insieme a un maglio o a un martello.

«Questo è un orbitoclasto» affermò. «Quando verrà l’ora, lo userò su di te. Lo inserirò sopra il bulbo oculare e ti perforerò il fondo dell’orbita, penetrando nel cervello. E sarai sveglia quando lo farò. Perfettamente sveglia. Ti trasformerò in una donna invisibile.»

Rachel fissò l’oggetto che teneva in mano con il cuore che le batteva all’impazzata. Sapeva che Adam avrebbe fatto ciò che diceva. Lo aveva già fatto quattro volte. L’unica cosa che poteva fare era restare viva il più a lungo possibile e sperare che la polizia la trovasse in tempo o di riuscire in qualche modo a scappare. Non era un gran piano, anzi, non lo era affatto.

Lui sorrise di nuovo e posò l’orbitoclasto sul carrello.

«Ma è per un altro giorno. Oggi ho preparato qualcosa di molto speciale.»

Prese un paio di cesoie da giardiniere e le guardò la mano sinistra. Aveva un’aria beata e uno sguardo assente. Rachel lo seguì e vide le macchie sul vinile. Poi guardò le cesoie.

«No» disse.

«Sì» rispose Adam.

Azionò un paio di volte le cesoie. Snip-snip. Snip-snip. Era il rumore di un attrezzo tenuto bene, affilato con regolarità. Rachel sentiva l’odore dell’olio. Strinse con forza la mano a pugno, ficcandosi le unghie nel palmo. Adam prese il mignolo e lo staccò dagli altri, poi aprì il più possibile le cesoie.