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Templeton accostò al marciapiede e spense il motore della BMW. Aveva parcheggiato in divieto sulle righe gialle doppie, ma stavano girando da cinque minuti ed era l’unico posto libero. Camden aveva un’atmosfera cosmopolita, bohémienne che mi ricordava il Greenwich Village prima dell’arrivo dei soldi o Venice Beach prima dell’arrivo dei turisti. C’era vitalità e fermento nell’aria. Le vetrine erano colorate e i bar gremiti anche se erano le tre e mezzo di venerdì. Il cielo, tuttavia, era più cupo che mai e le nubi basse davano l’impressione che fosse già notte.
Scesi dall’auto ma Templeton rimase incollata al sedile, con le mani sul volante nella posizione delle undici e cinque.
«Non dovrei farlo» disse.
«Scelta interessante di parole. “Non dovrei” implica che lo farai, quindi perché non saltiamo la fase della discussione in cui fingo di convincerti a fare qualcosa che ha già deciso?»
Templeton slacciò la cintura e uscì. Premette un pulsante sulla chiave e le sicure scattarono con un bip-bip. Mi accesi una sigaretta e le offrii il pacchetto. Ne prese una, se l’accese ed emise uno sbuffo di fumo.
«Potrebbero licenziarmi» affermò.
«Se ti licenziassero, potresti sempre fare la modella.»
«Parlo sul serio, Winter.»
«Anch’io.»
Rachel e Jamie Morris vivevano in un appartamento di due stanze che dava su Camden Lock, il che era di per sé emblematico. Donald Cole era pieno di soldi e amava ostentarli. Voleva che la gente lo sapesse e desiderava che la figlia avesse il meglio. Non le avrebbe mai comprato un’abitazione del genere. Avrebbe scelto qualcosa di più grande, di più lussuoso, consono al suo status. Tanto per cominciare, avrebbe preferito una casa a un appartamento, un edificio con più camere per i nipotini e un giardino dove potessero giocare.
Di conseguenza, Rachel aveva rifiutato il suo aiuto e deciso di arrangiarsi oppure Cole non approvava la scelta del marito e non l’aveva aiutata finanziariamente per principio. Avendo conosciuto Jamie Morris, optavo per la seconda alternativa.
Sapevo che Jamie stava da un amico a Islington, pertanto l’appartamento era vuoto. Premetti tuttavia lo stesso il campanello del numero otto, perché poteva aver cambiato idea o mentito. Nessuna risposta. Riprovai ma ancora niente. Non suonai per la terza volta. Se tua moglie è stata rapita, in genere rispondi al primo squillo.
La tastiera era piuttosto comune. Inserivi il codice giusto a quattro cifre ed entravi. Il problema era che con dieci numeri c’erano diecimila combinazioni possibili, il che significava che la probabilità di scoprire il codice a caso era esigua. Controllai la porta nel caso fosse stata aperta, ma non lo era. Poi studiai la tastiera con maggiore attenzione.
Sei numeri erano neri, quattro consumati a tal punto che si vedeva il metallo. Il due, il quattro, il sette e l’otto. Quattro numeri equivalevano a ventiquattro possibili combinazioni. Guardai a destra e a sinistra. Non c’era nessuno. Eravamo a metà di un vicolo che si diramava dalla via principale. Alla mia destra, a un centinaio di metri, un flusso costante di veicoli e pedoni passava davanti all’imbocco. Ogni tanto qualcuno guardava nella nostra direzione, ma nessuno sembrava interessato a quello che stavamo facendo. Iniziai con due, quattro, sette, otto e comparve una luce rossa.
«Allora questo è il tuo grande piano per entrare» commentò Templeton. «Premere i tasti a caso fino a trovare la combinazione giusta.»
«Mai niente è lasciato al caso.» Due, quattro, otto, sette: un’altra luce rossa.
«A me pare di sì.»
«Questo perché non cogli la logica che sta dietro.» Digitai due, otto, quattro, sette e si accese una luce verde. La serratura scattò e il portello si aprì.
«Hai avuto fortuna» esclamò infilandosi all’interno. «Ammettilo.»
«Non credo nella fortuna.»
All’ultimo piano c’erano due porte, una rossa e una blu. Il numero otto era la porta blu.
«E adesso?» chiese. «La buttiamo giù a calci?»
«Non faremo nulla di così rozzo.»
In tasca avevo un piccolo astuccio di pelle che conteneva i grimaldelli. Il mio istruttore all’FBI mi aveva addestrato tanto bene che ero in grado di scassinare una Yale come quella in venti secondi. Lui riusciva ad aprirla in meno di cinque, più rapidamente di una persona munita di chiave.
Inserii il tensore nel buco e mi misi all’opera, ascoltando con attenzione. Il primo pistoncino cedette con un debole clic, poi toccò al secondo. Procedetti con gli altri tre ed esercitai quindi una pressione maggiore con il tensore. La serratura scattò e la porta si aprì. Trenta secondi in tutto. Non male, ma non eccezionale.
Templeton scosse la testa facendo ondeggiare la coda. «Non indagherò oltre. Allora, cosa cerchiamo esattamente?»
«Non lo so con certezza, ma lo saprò quando lo avremo trovato.»
Chiusa la porta, ci trovammo confinati in un mondo cupo e grigio di ombre. Nel corridoio c’erano quattro porte, tutte chiuse. La prima conduceva in un bagno piccolo, dove entravano a stento il water, la vasca e il lavandino. Controllai l’armadietto e non trovai niente di interessante al di là degli analgesici, delle pillole anticoncezionali e del kit da barba di Jamie Morris. Niente nemmeno sul davanzale della finestra: solo flaconi di shampoo, balsamo, bagnoschiuma e un’infinità di lozioni varie.
La porta successiva conduceva nella camera. C’erano un letto king-size e un armadio a muro. Pareti lilla e tende porpora. Come in corridoio, il pavimento era di laminato e la stanza era in ordine. Niente abiti sparsi per terra, ogni cosa al proprio posto.
«Vedi qualcosa di interessante?» chiesi.
«Il letto è fatto, il che significa che Morris non ha dormito qui ieri notte.»
«No. Scopri che tua moglie è scomparsa e l’ultima cosa che ti passa per la mente è fare il letto.»
«Il fatto che la moglie sia scomparsa è irrilevante. Devo ancora trovare un uomo che sappia fare un letto.»
Mi mossi in senso orario e Templeton in senso antiorario. Controllammo i cassetti, il guardaroba e sotto il letto; ci incontrammo a metà, accanto all’armadio a muro.
«Niente» fece lei.
«Niente» confermai.
La porta seguente si apriva su una seconda camera con una duplice funzione: in parte studio, in parte stanza per gli ospiti. Era un po’ più piccola di quella principale, decorata con calde tonalità di giallo e arancione. La scrivania collocata in un angolo era affiancata da uno schedario e la libreria era piena zeppa di volumi. Per terra c’era un futon con un piumino appallottolato nel centro e un paio di cuscini in fondo.
«Be’, almeno sappiamo dove ha dormito Jamie Morris ieri notte» osservò Templeton. «Pensi lo faccia d’abitudine?»
Guardai il mucchio di biancheria sporca in un angolo e stimai che fosse di tre giorni. «Lo fa d’abitudine» risposi.
Partimmo di nuovo dalla porta, stavolta io mi mossi in senso antiorario e lei in senso orario. Passammo attentamente in rassegna lo schedario ed estraemmo i cassetti per accertarci che non ci fosse niente nascosto nel mobile; ne controllammo anche il fondo, in caso vi avessero attaccato sotto qualcosa. All’FBI mi avevano insegnato a essere meticoloso.
«Niente» feci.
«Niente» confermò Templeton. «Dovremmo sbrigarci. Se Morris tornasse, potrei tranquillamente dire addio alla mia carriera.»
«Non tornerà. Si ferma da un amico.»
Lei mi guardò.
«Niente fretta» ribadii. «Qui c’è qualcosa.»
Passammo al soggiorno. Guardammo dappertutto, dietro il televisore a muro, dietro e sotto il divano di pelle color crema. Ne tastai i lati ma non trovai niente, tranne un po’ di sporcizia, alcuni spiccioli e una sostanza organica d’origine incerta. Nel porta DVD non c’era nulla, come nelle custodie dei dischi. Dal soggiorno si entrava in cucina e anche lì, niente.
«Andiamo, Winter. Usciamo da questo posto.»
«Qui c’è qualcosa.»
«Perché? Perché lo dici tu. Io vado. Se vuoi continuare a cercare, va bene. Ti aspetto in macchina.»
Templeton andò in corridoio. Diedi un’ultima rapida occhiata in cucina e poi la seguii. Il sole arrivava in corridoio dal soggiorno e si rifletteva sul pavimento di laminato. Qualcosa attirò la mia attenzione. Alcuni graffi per terra, in corrispondenza della botola del solaio lì sopra. Templeton era ormai all’ingresso.
«Aspetta» esclamai tornando svelto in cucina a prendere una sedia. Lei rimase in corridoio, battendo il piede per terra. Tutto in lei denotava impazienza.
«Dobbiamo andare, Winter. Ho la brutta sensazione che Morris possa arrivare da un istante all’altro.»
La ignorai, salii sulla sedia, aprii la botola e sbirciai oltre il bordo. La scatola era lì vicino. Piccola, argentea, quadrata. La presi, scesi dalla sedia e sollevai il coperchio. Dentro c’erano un cellulare e un estratto conto bancario intestato a Jamie Morris. Era datato primo novembre e arrivava fino al trenta. Indicava un versamento iniziale di duemila sterline, seguito da quattro pagamenti settimanali a un certo Simon Stephens. I conti erano diversi, ma le operazioni erano state tutte effettuate di venerdì.
Il cellulare era un modello economico, senza fronzoli. Niente tastiera qwerty, niente touch screen. Nell’elenco chiamate c’era un solo numero. Nell’ultimo mese Morris aveva chiamato quel numero otto volte, tre volte il mattino precedente. Templeton si era avvicinata alla mia spalla: sentivo la sua mano sul braccio e il suo alito caldo sul collo, l’impazienza ormai sostituita dall’interesse. Premetti il tasto per inviare la chiamata e un altro tasto per attivare il viva voce. Tre squilli e poi scattò un messaggio registrato.
«Uffici di Simon Stephens, investigatore privato. Spiacente, in questo momento non posso rispondervi ma se lasciate il vostro nome e il vostro numero, vi contatterò appena possibile.»