66

Rachel seguì Adam su per l’ampia scalinata. Non avrebbe voluto ma non vedeva alternative. Disobbedirgli era escluso. Sentiva le gambe deboli e pesanti. Dovette tenersi alla ringhiera per stare in piedi e continuare a salire. Trascinava la mano sul legno lucido.

Il fatto che fossero diretti di sopra la terrorizzava. Su c’erano le camere; i letti. Adam l’aveva già ferita, torturata con la corrente elettrica e mutilata. Adesso l’avrebbe stuprata? In tal caso non si sarebbe opposta. Sarebbe rimasta immobile e lo avrebbe lasciato fare, pregando che finisse presto. Quello che lui desiderava era suscitare una reazione, perché così si eccitava: di paura, odio, disperazione, qualsiasi cosa purché fosse una reazione. Negargliela sarebbe stato più efficace che lottare o supplicare.

Quello era il piano, un buon piano che l’avrebbe mantenuta in vita. Il problema era che non avrebbe funzionato; lei lo sapeva. Non appena Adam l’avesse sfiorata con un dito, avrebbe cercato di respingerlo in tutti i modi, avrebbe scalciato, morso, graffiato. Più violenta fosse stata la reazione, più spietata sarebbe stata la vendetta di lui e così avrebbe firmato la sua condanna a morte. Ma finché avesse avuto fiato in corpo avrebbe lottato.

Lo specchio in cima alle scale aveva una cornice dorata ed era splendente. Rachel si bloccò di colpo e si guardò. Non si riconobbe quasi. La donna riflessa sembrava una malata di cancro: il volto teso, emaciato, gli occhi vitrei, spenti, cerchiati di nero. Con quell’abito assomigliava a una bambina che avesse sottratto un vestito alla madre e lo avesse indossato per divertirsi. La testa calva le fece venire voglia di piangere.

Adam l’affiancò e sorrise vedendola sconvolta. Quanto avrebbe voluto avere un coltello, una pistola o un pungolo per bestiame. Avrebbe voluto infierire su di lui, farlo soffrire in modo analogo. Ma soprattutto cancellargli quel sorriso compiaciuto dalla faccia.

«Numero Cinque, muoviti.»

In cima alle scale svoltò a destra. Lei lo seguì sul pianerottolo e in corridoio, superando una serie di porte chiuse che nascondevano stanze buie. I fiocchi di neve cadevano sulle finestre e il vento ululava all’esterno della vecchia casa.

Nell’aria c’era un profumo d’arancia misto a un altro odore più vago, di una sostanza chimica moderna che le ricordò l’ospedale. Più si addentravano nel corridoio, più forte diventava. In fondo c’era un’altra porta, contornata da una luce intensa che filtrava dalle fessure.

Adam si avvicinò, bussò piano e l’aprì. Si scostò e le fece cenno di passare. Rachel non si mosse. Restò paralizzata dov’era. L’odore d’ospedale era più forte che mai, le invase narici e polmoni e le rivoltò lo stomaco. Deglutì con forza ricacciando giù la bile e imponendosi di non vomitare.

«Numero Cinque, entra nella stanza della mamma.»

Lei restò immobile.

«Numero Cinque, entra nella stanza della mamma o affronterai le conseguenze.»

Rachel varcò la soglia.

La camera era arredata come una stanza privata d’ospedale: pareti di tonalità pastello, tendine rosa chiaro alle finestre, materiale plastico resistente e funzionale per terra. Giganteschi mazzi di fiori freschi davano un tocco di vita e di colore all’ambiente.

Il letto d’ospedale era alzato in modo che la madre di Adam potesse star seduta. Teneva le mani flaccide in grembo, una sull’altra. Non muoveva neanche una falange. Aveva il volto incavato e scarno, ma Rachel immaginò che un tempo era stata una bella donna. Aveva gli occhi castani di Adam e la stessa struttura ossea.

A prima vista i capelli sembravano veri. Solo quando si avvicinò si accorse che era una parrucca. Aveva un trucco lieve, applicato con cura, e sulla camicia da notte indossava un cardigan color crema.

Alla parete di fronte al letto erano fissati quattro televisori a grande schermo, collegati ciascuno a una telecamera del seminterrato. Mostravano immagini notturne verdi e nere. Su due schermi Rachel vide Sophie che si dimenava sul materasso cercando disperatamente di liberarsi le mani.

La libreria conteneva DVD, datati e numerati da uno a cinque sul dorso. Erano disposti in ordine cronologico, un disco per giorno. L’unico contrassegnato dal numero cinque aveva la data del giorno successivo al suo rapimento. Se conteneva i filmati del giorno prima, significava che si trovava lì da due giorni.

Sulla cassettiera c’erano due teste di manichino e una mano. Una aveva una parrucca, l’altra era calva. La mano stava dritta come se salutasse e aveva cinque fedi, una per dito. Quella di Rachel era sul mignolo. La brandina nell’angolo era stata rifatta con cura ma aveva un’aria decisamente usata.

«Vieni a sederti qui.»

L’anziana indicò lo spazio accanto a lei. Rachel non si mosse, non poteva. Si fissò i piedi per non guardarla. Adam la spinse delicatamente e a quel punto la paralisi svanì. Si avvicinò al letto come una sonnambula e si sedette il più possibile sul bordo. La vecchia indicò lo spazio tra loro.

«Più vicino.» Aveva una voce da persona colta di un tempo, avvezza a dare ordini e a farsi obbedire.

Rachel guardò Adam e si avvicinò leggermente. La vecchia la studiò con attenzione osservandone ogni centimetro del viso e del corpo.

«Davvero bella» commentò. «Tu mi trovi bella?»

«Sì.»

Scoppiò a ridere. Era una risata seducente e Rachel ebbe la sensazione che fosse falsa quanto il sorriso di Adam, e altrettanto pericolosa.

«Ero bella una volta, non ora. Alla fine l’età ci piega tutti. Ti do un consiglio, mia cara: ti suggerisco caldamente di non mentirmi. Se lo farai, dirò ad Adam di tagliarti la lingua.» Guardò il figlio. «Adam ama giocare con i coltelli, ma questo naturalmente già lo sai.»

Rachel fissò il muro dietro il letto senza dire nulla.

«Lui mi odia, sai. Io l’ho messo al mondo e lui mi odia. Vuole uccidermi ma non ha il fegato di farlo. È proprio come suo padre. Anche suo padre era senza fegato. Non è vero, Adam? Sogni di soffocarmi con un cuscino.»

«Io ti voglio bene, mamma.»

«No. Vuoi bene solo a te stesso, proprio come tuo padre» replicò fissando Rachel negli occhi. «Credi nel paradiso?»

Lei pensò al sole e immaginò di avere la sabbia calda sotto le dita dei piedi. Pensò a suo padre. «Credo nel giudizio» rispose pacata.

L’anziana sorrise. «Alla fine una risposta onesta. E l’inferno? Credi nell’inferno?»

Rachel guardò le immagini verdi e nere di Sophie sullo schermo. «Sì» rispose. «Credo nell’inferno.»

«No, non ancora. Pensi di crederci e con il tempo ci crederai, ma hai ancora un po’ di strada da fare. Adam, prendi la borsa dei trucchi.»

Lui si avvicinò alla cassettiera e tornò con una grande borsa dorata.

«Sai cosa fare» disse l’anziana.

Adam estrasse un rossetto e Rachel si tirò indietro. L’afferrò allora per la nuca in modo che non potesse sfuggirgli e glielo mise. Fece con calma, procedendo con delicatezza e attenzione. Con meticolosità.

«Mio figlio è un motivo costante di delusione» affermò la donna. «Mi ha distrutta due volte: quando l’ho partorito e quando mi ha resa invalida. Non avere mai figli: te ne pentirai per tutta la vita.»

Il monitor cardiaco accanto a lei segnalava novanta battiti al minuto. Anche la pressione sanguigna era elevata.

Adam applicò l’ombretto turchese con la stessa delicatezza del rossetto, poi fu la volta del fard, con movimenti circolari uniformi e la spugnetta che le solleticava la guancia.

«Avevo sempre desiderato una figlia, invece ho avuto Adam. Però quand’eri piccolo, giocavamo a travestirci, vero, Adam?»

«Per favore non farlo, mamma.»

«Era così bello con i suoi capelli castani ricci e i suoi occhioni nocciola. E il rosa gli stava a meraviglia.» Sorrise al ricordo. «Poi è cresciuto, il suo corpo ha iniziato cambiare e ha finito per rovinarsi. Non era più lo stesso. Per quanti tentativi facessi, aveva un aspetto troppo maschile. Adam, vai a prendere la parrucca.»

Rachel sentì i suoi passi pesanti allontanarsi dal letto e riavvicinarsi. Fissò i fiori, il muro, qualsiasi cosa pur di non guardare lui o sua madre. Sapeva come funzionava il gioco. Una volta tornati nello scantinato, la situazione sarebbe precipitata, più del solito. Adam era furioso. In quel momento si stava controllando, stava reprimendo la rabbia ma prima o poi sarebbe esploso e a quel punto lei e Sophie avrebbero pagato le conseguenze.

L’anziana a letto sapeva cosa stava facendo, sapeva esattamente quali tasti premere. Lo stava mandando su tutte le furie e dopo si sarebbe goduta lo spettacolo sui quattro grandi schermi. Adam le mise la parrucca e gliela sistemò con le sue dita morbide da bambino.

«Be’, cara, cosa stai aspettando? Alzati e fammi una giravolta.»

Rachel si alzò con le gambe pesanti come piombo e fece un giro completo, goffa e rigida. Terminò la piroetta e restò immobile, trattenendo il fiato. L’anziana la fissò impassibile, poi sfoderò un sorriso raggiante. Rachel ebbe la netta impressione che, se fosse stata in grado di muovere le mani, avrebbe applaudito di gioia.

«È proprio come guardarsi allo specchio» commentò.