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Le lampade si accesero con un rumore sordo: alogene intense che la accecarono. Il bagliore si rifletteva sulle pareti bianche e sulle piastrelle del pavimento. Era troppo, tutto di colpo.

Rachel si portò una mano agli occhi per proteggersi, ma anche così la luce era troppo forte. Allora li chiuse e li riaprì lentamente, un millimetro alla volta, abituandoli a poco a poco. Aveva ragione, nella stanza non c’erano finestre e la porta era una sola, dipinta di un bianco lucido che rifletteva la luce quasi come le piastrelle. In basso aveva uno sportello per cani. Anche il soffitto era bianco, come il materasso e le coperte.

Era uno spazio freddo, sterile, che le ricordò un laboratorio. Facile da pulire. A quel pensiero ebbe un brivido nonostante il caldo. Adam le aveva tolto il vestito rosso sostituendolo con un paio di pantaloni grigi informi da ginnastica e una maglietta dello stesso colore. Le aveva anche tolto la biancheria di pizzo mettendogliene dell’altra di cotone.

Rachel vide tutte quelle cose senza vederle veramente, le guardò senza rendersene conto. Era solo vagamente consapevole del materasso, del vomito che si stava seccando, del secchio nero di plastica nell’angolo. Aveva desiderato tanto un po’ di luce e ora che riusciva a vedere, avrebbe voluto essere cieca perché l’unica cosa che poteva vedere era una poltrona odontoiatrica.

Era di acciaio satinato con le imbottiture color crema. Robusta e pesante, identica a quella su cui si sedeva ogni sei mesi quando andava dal dentista per un controllo, tranne per un particolare importante: le cinghie. Cinghie imbottite per bloccare le braccia, le gambe e la testa. Per un po’ rimase seduta sul materasso a fissarla. Non avrebbe voluto, ma non poteva farne a meno. Le venne male solo a vederla.

Si alzò e si avvicinò alla poltrona in trance. Sul rivestimento dei braccioli c’erano alcune macchie scure. Sapeva che era sangue, ma non volle ammetterlo perché a quel punto si sarebbero aperte le cateratte e non era ancora pronta ad affrontare l’idea. Forse non lo sarebbe mai stata.

«Numero Cinque, avvicinati alla porta.»

La voce di Adam le arrivò da ogni direzione, deformata e robotica, così forte da essere assordante. Rachel si girò di scatto, terrorizzata. Sulle pareti in alto erano appese quattro casse, una in ogni angolo, tutte dipinte di bianco. Anche le telecamere collocate accanto erano bianche, posizionate in modo da non avere punti ciechi.

«Numero Cinque, avvicinati alla porta» ripeté Adam.

Lei obbedì. Guardò per terra in modo da non dover fissare le telecamere, osservando il movimento dei propri piedi. Le sembrò che quelle gambe non fossero sue e si sentì tremare tutta, consapevole che le telecamere seguissero ogni sua mossa. Lo sportello si spalancò e fu introdotto un secchio, pieno per tre quarti di acqua saponata. Dentro galleggiava una spazzola. Lo sportello si richiuse di colpo.

«Numero Cinque: pulisci dove hai sporcato.»

Rachel esitò. Guardò gli altoparlanti, le telecamere, il vomito accanto al materasso e infine la poltrona. Afferrò il secchio, lo avvicinò al materasso, si mise in ginocchio e cominciò a pulire. L’odore di candeggina le irritò il naso e le fece lacrimare gli occhi. Le sostanze chimiche le bruciarono le mani scatenandole prurito. Quand’ebbe finito, riportò il secchio alla porta. A quel punto lo sportello si aprì.

«Numero Cinque, metti il secchio al di là dello sportello.»

Lei eseguì. Lo sportello si richiuse e le luci si spensero. I passi svanirono, una porta si aprì e si chiuse in lontananza, dopodiché l’unico rumore fu quello del suo respiro. Rachel tornò lentamente sui suoi passi con le braccia tese davanti a sé, come una sonnambula. Raggiunse il muro in fondo e lo seguì fino a trovare il materasso, poi si chinò e si avvolse in una coperta. Era in cerca di conforto, ma l’unica cosa che trovò fu una triste solitudine che la privò di quel brandello di speranza che le restava. Strizzò gli occhi per frenare le lacrime e contro le palpebre che le bruciavano vide una miriade di macchioline rosa e bianche.