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Estrassi una sigaretta dal pacchetto e la avvicinai alle labbra. Soffiava un vento teso dall’Artico e fui costretto a coprire lo Zippo con la mano per proteggere la fiamma. Le nubi erano più grigie, più cupe e basse. Mi sembrava d’essere in una tomba di cemento. E percepivo la neve nell’aria.

La Jaguar era parcheggiata nello stesso posto di prima, il guidatore nascosto dietro a un giornale. In prima pagina, a grandi lettere, si leggeva, IL SEZIONATORE. Non mi stupiva che il soprannome avesse preso piede tanto in fretta: i media adoravano quel genere di cose. L’omone mi vide e diede un colpetto col gomito al compagno. Questi chiuse subito il giornale, lo piegò in due e lo gettò dietro di sé. Mi avvicinai alla Jaguar e salii sul sedile posteriore.

«Portatemi dal vostro capo» dissi.

I due si scambiarono uno sguardo imbecille. Quell’eventualità non rientrava evidentemente tra le mansioni previste. Avevano avuto l’ordine di seguirmi e tenermi d’occhio, non di fare i tassisti. Lo smilzo scrollò le spalle e il collega lo imitò. Era lui la mente, il responsabile delle decisioni. Mi lanciò un’ultima occhiata e poi decise. Mise in moto l’auto, uscimmo dal parcheggio e percorremmo sobbalzando il vialetto fino alla strada.

Ammazzai il tempo sfogliando il giornale. Il nostro uomo si era conquistato le prime quattro pagine e in alcuni pezzi ritrovai le mie parole. L’unica spiegazione era una fuga di notizie dalla squadra di Hatcher e avrei scommesso sull’anziano detective brizzolato. I suoi giorni di gloria erano ormai finiti e avrebbe gongolato vedendo l’articolo sapendo che la notizia proveniva da lui e che in quel modo avrebbe guadagnato punti sugli altri. Era triste e patetico, e decisamente controproducente.

La prima pagina era occupata da una foto gigante di Rachel Morris; l’unico testo era il titolo in lettere maiuscole: L’ULTIMA VITTIMA DEL SEZIONATORE. Non l’avevo mai vista prima, il che significava che arrivava probabilmente da Donald Cole, non da Scotland Yard.

Era stata ritoccata al computer. Rachel aveva una pelle liscia da modella e il colorito era stato modificato per conferirle un aspetto sano. Errore: dovevi rendere le vittime umane, non il contrario, e le imperfezioni erano la chiave. La storia della nostra vita è raccontata dalle rughe e dai segni che si accumulano con il tempo. A parte ciò, era una fotografia come tante. Rachel sorrideva allegra e spensierata con un’aria radiosa. Ogni dettaglio svelava una persona che aveva tutto, un intero mondo di possibilità davanti a sé.

Ci fermammo nel parcheggio posteriore del quartier generale di Cole a Stratford, accanto alla sua Maserati. Lo smilzo e l’omone mi accompagnarono al terzo piano. Percorremmo il corridoio fianco a fianco, lo smilzo alla mia sinistra, l’omone alla mia destra. Quando raggiungemmo l’ufficio, l’assistente personale di Cole prese il loro posto. Bussò alla porta e una voce fonda, attutita, dall’altra parte ci disse di entrare. Da sotto la porta filtrava odore di sigaro.

Il guidatore lo aveva avvisato, perciò Cole mi stava aspettando. L’omone congedò l’assistente con un cenno e lei chiuse piano la porta. Era seduto su uno dei divani di pelle, al che capii che voleva mantenere un tono informale. Sul tavolino di vetro c’era una pila di documenti e il mio nome scritto sul foglio in cima. Aveva fatto indagini sul mio conto e voleva lo sapessi. Interessante.

Stava fumando un sigaro enorme e costoso. Vista la sua passione per gli status symbol, era probabilmente cubano. Mi accesi una sigaretta e mi sedetti sul divano che formava il tratto corto della L. Alle pareti dietro ai divani erano appese le fotografie dei suoi cavalli da corsa.

Nelle ultime ventiquattr’ore Donald Cole era invecchiato di dieci anni. Aveva un aspetto decisamente terrificante. Lo avevo già visto questo effetto, dovuto all’accumulo dello shock e dello stress, del dolore e dell’essere intrappolato nel circolo vizioso degli «e se?». Soffriva, e l’unica cosa che avrebbe potuto lenire quella sofferenza era il ritorno a casa della figlia sana e salva.

«Alla Met sono tutti imbecilli» brontolò. «Non saprebbero trovare il buco del proprio culo neanche con una cartina.» Agitò il sigaro davanti a lui. «Lei viceversa ottiene risultati.»

«Richiami le sue guardie del corpo. Non ho bisogno di baby-sitter.»

«Qui non si tratta di quello di cui ha bisogno lei, si tratta di quello che va fatto per ritrovare mia figlia.»

«So badare a me stesso. Non ho bisogno di guardie del corpo.»

«Invece sì e le dirò perché. Se le succede qualcosa, non rivedrò mai più la mia bambina. Allora cosa si sta facendo per trovarla?»

«Tutto il possibile.»

Cole sbuffò, sprezzante. «E questo che diavolo vorrebbe dire?»

«Senta, capisco quanto sia frustrante per lei, davvero. È abituato a decidere e adesso si ritrova in una situazione che non può controllare. A peggiorare le cose, ha soldi, il che non è una buona combinazione. In questo momento è convinto di poter dare una mano, ma non è così. Quello che sta facendo in realtà è sabotare le indagini.»

«Lei è padre? Ha figli?»

Scossi la testa, scrollando la cenere dalla sigaretta nel posacenere di cristallo sul tavolino.

«Allora non sa niente.»

Mi fissò con durezza.

«Ha finito?» chiesi.

«Rivoglio la mia bambina.»

«Be’, almeno su questo siamo d’accordo.» Feci un altro tiro. «Senta, le riporterò Rachel ma ho assolutamente bisogno che si tiri indietro e mi lasci lavorare. Questo significa niente ricompense e niente baby-sitter. Se le salta in testa un’idea per aiutare Rachel, voglio che se la scordi all’istante, perché, di qualsiasi cosa si tratti, non la aiuterà. Glielo garantisco. Anzi, le dirò di più: finirebbe probabilmente per ucciderla.»

Lui mi fissò ma nel suo sguardo non c’era più alcuna durezza. Era come tutti gli altri genitori sconvolti che avevo conosciuto in passato. Mi chiesi quando gli avessero parlato così l’ultima volta o se qualcuno lo avesse mai fatto. In tal caso probabilmente ora non era più tra i vivi.

«Se non me la riporta sana e salva, la riterrò personalmente responsabile. Questo lo capisce, vero?»

«Ha finito?» Spensi la sigaretta e indicai con un cenno la pila di carte sul tavolino, come se la notassi per la prima volta. «Ha fatto i compiti. Sa che ottengo risultati.»

«Non sempre.»

«Nella maggior parte dei casi.»

«Speriamo che questa sia la regola e non l’eccezione» commentò.

«Speriamo.»

Feci per andarmene.

«Aspetti.»

Si avvicinò al tavolo e prese un biglietto da visita da un cassetto. Scrisse qualcosa dietro con una penna placcata d’oro e me lo porse.

«Il mio numero privato» disse. «Mi trova ventiquattr’ore su ventiquattro, sette giorni su sette. Se ha bisogno di qualcosa, di qualsiasi cosa, mi chiami.»