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Il miglior chirurgo cerebrale di Londra era il professor Alan Blake. Aveva lo studio all’Istituto di Neurologia dello UCL, un’enorme edificio di mattoni rossi a Queen Square, circondato da altri edifici imponenti e da un bel po’ di calcestruzzo. A detta della sua segretaria, il professore non era occupato, era superimpegnato. Per fortuna prima di pranzo aveva quindici minuti liberi. Dall’enfasi con cui aveva sottolineato il numero quindici capii che, se avessimo sforato, forse non avremmo più rivisto il sorgere del sole.

Con i lampeggianti blu per farsi strada nel traffico Templeton e io arrivammo con cinque minuti d’anticipo. Secondo Wikipedia nell’istituto lavoravano quattro dei dodici neuroscienziati più illustri del mondo. Il professor Blake era il secondo della lista. Era stato battuto sul traguardo da un certo Xi Yeung della Johns Hopkins, nel Maryland.

Il suo ufficio all’ultimo piano era polveroso e molto vissuto, l’esatto opposto di quello di Flight. Niente parete con diplomi e fotografie, in parte perché le credenziali del professore parlavano da sole e non aveva bisogno di sbandierarle ai quattro venti, ma soprattutto perché non c’era spazio.

Alle pareti erano addossate librerie alte fino al soffitto e ogni posto disponibile era occupato da libri: ce n’erano diverse centinaia, se non migliaia. La scrivania era sommersa di carte e verso il bordo si ergeva una pila precaria di cartelline. Il professor Blake ci accolse sulla porta salutandoci e dandoci la mano. Aveva la pancia, un viso largo e cordiale, i capelli brizzolati e una barba ben curata. Le sue mani erano delicate, sottili. Tolse volumi e scartoffie da un paio di sedie e ci invitò a sederci.

«Allora, state lavorando al caso delle donne lobotomizzate.» Il suo accento scozzese si era ammorbidito dopo anni di vita in Inghilterra.

Annuii. «Esatto.»

Lui scosse la testa. «Un fatto terribile. L’ho seguito sui giornali.»

«Che cosa mi può dire sulla lobotomia?»

«Cosa vuol sapere?»

Guardai l’orologio. «Mi faccia un corso intensivo di tredici minuti.»

«Non si preoccupi di Glenda, can che abbaia non morde.» Tacque per ricomporsi. Si fece serio e adottò un tono da docente. «Bene, nella lobotomia si resecano le connessioni con la corteccia prefrontale, la parte del cervello che controlla la personalità e i processi decisionali. La corteccia prefrontale è fondamentale perché ci consente, tra le altre cose, di distinguere i concetti opposti, di stabilire che cosa sia bene o male, migliore o peggiore, identico o diverso. Grazie a essa siamo in grado di valutare le conseguenze delle nostre azioni e di nutrire aspettative. Ha a che fare con le abilità sociali, cioè la capacità di reprimere stimoli che, se incontrollati, potrebbero portare a comportamenti socialmente inaccettabili. Quando si effettua una lobotomia si distrugge in sostanza la personalità di un soggetto. Se ne ruba l’anima, se vogliamo.»

Pensai a Sarah Flight che fissava inespressiva dalla finestra di Dunscombe House, vedendo senza vedere. Le era accaduto proprio questo: le avevano rubato l’anima.

«In base agli standard attuali è considerata pura macelleria piuttosto che chirurgia» proseguì. «Siamo sullo stesso piano dell’uso delle sanguisughe. Detto ciò, la prima cosa che dovete capire è che si tratta di una tecnica nata dalla disperazione. Tornate indietro, all’inizio del secolo scorso, quando i manicomi erano pieni fino a scoppiare e non esistevano vere terapie per i malati. Si scopre questo metodo miracoloso che sembra aiutarli. È ovvio che venga accolto a braccia aperte. Si stima che siano state effettuate quarantamila lobotomie in America e diciassettemila qui, soprattutto tra l’inizio degli anni Quaranta e la metà dei Cinquanta.»

«Così tante» esclamai.

«È il problema delle cosiddette cure miracolose. All’inizio la gente si entusiasma e quando infine il buon senso prevale, il danno è ormai fatto. I russi sono stati i primi ad abbandonarla, nel 1950, dichiarando che trasformava il malato di mente in un idiota, e avevano ragione. Gli americani sono stati molto più lenti ad arrivarci. Negli Stati Uniti si effettuavano ancora lobotomie negli anni Ottanta.»

«Che cosa comporta la procedura?»

«Le vostre vittime avevano dei fori nel cranio?»

Scossi la testa. «No.»

«In tal caso avete a che fare con una lobotomia transorbitale, o lobotomia del punteruolo. La tecnica è stata messa a punto da Walter Freeman, che l’aveva sperimentata, a metà degli anni Quaranta, usando un punteruolo da ghiaccio e un pompelmo, di qui il nome. Prima di impiegarla sui malati, Freeman è passato dai pompelmi ai cadaveri. In questo tipo di lobotomia si solleva la palpebra superiore e s’infila sotto uno strumento chirurgico chiamato orbitoclasto fino a raggiungere l’orbita. Si usa quindi un martello per perforare il sottile strato osseo e penetrare nel cervello; a quel punto si muove l’orbitoclasto in varie direzioni e a varie profondità per distruggere il tessuto cerebrale. L’orbitoclasto viene poi inserito nell’altro occhio e la procedura ripetuta.»

«Suppongo non ci voglia una preparazione medica.»

«Non necessariamente. Si ritiene che Freeman abbia effettuato quasi tremilacinquecento lobotomie senza alcuna formazione chirurgica alle spalle. Chiedeva venticinque dollari a intervento.» Blake scosse la testa. «Venticinque dollari per distruggere una vita. È inconcepibile, assurdo, però è successo. Sembrano cose da medioevo. Freeman era un convinto assertore della procedura e si spostava negli Stati Uniti con un furgone, soprannominato Lobotomobile, per far visita agli istituti psichiatrici e istruire il personale. Lui più di altri ha contribuito a diffondere la tecnica.»

«Io sarei in grado di effettuare una lobotomia?» chiesi.

«Senza alcun problema. Come le ho detto, parliamo di pura macelleria, non di una pratica che abbia a che fare con la chirurgia.»

«Mi scusi, non era quello che intendevo» dissi sorridendo. «Quello che vorrei è che mi insegnasse a farla.»