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La Jaguar X-Type era proprio dietro, abbastanza vicina da permettermi di distinguere i due uomini seduti davanti. Quello al volante era sotto la cinquantina, un tipo smilzo dall’aria tesa. Il suo compagno era più giovane, molto più grosso, alto e massiccio. Un pilone più che un mediano di mischia. Il guidatore non fece nulla per nascondere il fatto che ci stesse seguendo. Imitava ogni nostra mossa, svolta dopo svolta. Ogni volta che il tassista metteva la freccia, lui faceva lo stesso. Battei sul divisorio di vetro e lui lo aprì.
«Sì» disse.
Era un bianco di quasi sessant’anni, con una pancia da birra e un atteggiamento allegro. Probabilmente guidava il taxi da una vita. Indicai il retrovisore.
«Vede quella Jaguar là dietro? Le do venti sterline in più se riesce a seminarla.»
«Certo.»
Premette l’acceleratore e io mi tenni stretto. Imboccò diverse strade laterali senza mettere le frecce, si fece largo a forza negli ingorghi tra lo strombazzare dei clacson. Persi il conto delle volte in cui rischiammo un incidente. Sentivo l’adrenalina in circolo e avevo le nocche bianche, tanto stringevo la cintura. Scorgevo il riflesso del tassista nello specchietto: aveva un sorriso idiota sul volto e si stava chiaramente divertendo un mondo. Sembrava un ragazzino proiettato per magia in un film d’azione.
Era in gamba, davvero, ma purtroppo lo smilzo della Jaguar lo era ancor di più. Ci tallonò sempre, senza mai restare indietro più di due auto. Entrammo a Dunscombe House e avanzammo sul vialetto pieno di buche, sterzando di qua e di là per evitare i crateri più grandi. Il tassista si fermò davanti all’ingresso, la Jaguar in un parcheggio a cinquanta metri.
«Mi dispiace, ho fatto del mio meglio» disse l’uomo.
«Non c’è problema» risposi e gli diedi comunque le venti sterline in più.
Fece inversione e scomparve lungo il vialetto. La Jaguar rimase dov’era. Salutai il guidatore con un vago gesto militare, mi avvicinai all’ingresso e suonai il campanello.
Al banco c’era la stessa addetta alla reception del giorno prima. Mi chiamò detective Winter ma non mi affannai a correggerla per evitare lunghe spiegazioni e rendere la vita molto più semplice. Firmai e mi avviai, superando il grande albero di Natale della sala comune.
Sarah Flight era nello stesso posto in cui l’avevo trovata il giorno prima, la poltrona vicina al bovindo, al di là del quale si estendeva il giardino che non vedeva. Avvicinai una sedia e mi sedetti al suo fianco.
Le persone erano le stesse: una decina di pazienti persi nel loro mondo. E come la volta precedente, alcuni giocavano a carte, altri parlavano tra sé, altri ancora fissavano il vuoto. Erano di turno gli stessi inservienti. Avevano un tavolo tutto per loro e la stessa aria annoiata del giorno prima. Il televisore nell’angolo in alto aveva il volume troppo basso perché si potesse sentire qualcosa.
Se fossi tornato lì il giorno seguente, a distanza di un anno o anche di dieci, mi sarei trovato davanti la stessa scena. Le facce sarebbero cambiate, ma nessuno comunque avrebbe rivolto attenzione al televisore. Di sopra qualcuno urlò e di riflesso alzai la testa in direzione del suono. Fui l’unico nella stanza a reagire, persino gli inservienti rimasero immobili. Smisero per un istante di conversare, poi ripresero come se non fosse successo niente. Si udì un altro strillo acuto di dolore. Era impossibile capire con certezza se fosse stato un uomo o una donna.
«Allora come va, Sarah?»
Lei fissò al di là del vetro guardando senza vedere. Il suo petto si sollevava e si abbassava grazie agli impulsi inviati dal midollo allungato. Aveva i capelli arruffati, come se nessuno l’avesse pettinata quel mattino, e dall’angolo della bocca le scendeva un filo di bava. Stavolta mi ero portato un pacchetto di fazzoletti e ne presi uno per pulirla.
Fuori, un custode stava raccogliendo le foglie. Le impronte nella neve fresca mostravano dove aveva messo piede e c’erano anche i segni del suo piccolo trattore, due nitide linee parallele, simili ai binari ferroviari. Un’araucaria si allungava, alta e robusta, verso il cielo ardesia. Il mondo dall’altra parte del vetro era avvolto dal manto opaco dell’inverno.
Sarah non vedeva niente di tutto ciò. Probabilmente stava lì ogni giorno, con la stessa vista davanti. Le stagioni andavano e venivano e lei era ignara di tutto. Era deprimente, ma lo era ancor di più il fatto che non potesse lamentarsi di quella vista sempre uguale.
Mi appoggiai allo schienale, accavallai le gambe e attesi.
Non ci volle molto.
Amanda Curtis entrò nella sala. Udii i suoi passi decisi e leggeri sul pavimento di legno. Mentre si avvicinava, prese una sedia e la sistemò vicino alla figlia. Aveva il volto tirato e gli occhi castani tristi, segnati da rughe. I capelli grigi erano mascherati dalla tintura. Assomigliava molto a Sarah Flight, con un po’ di anni in più.
E come la figlia, non portava anelli all’anulare. Era l’effetto domino, un fenomeno che conoscevo fin troppo bene. C’erano la vittima e le vittime della vittima: il veleno sparso dal maniaco si diffondeva come le radiazioni di un’esplosione nucleare, invisibile e letale.
«Buongiorno tesoro.»
Amanda Curtis le scostò i capelli scoprendole un pezzo di fronte su cui stampò un bacio, poi si sedette a guardare il giardino. Per un po’ rimase semplicemente a fissare senza dire nulla. Mi chiesi che cosa vedesse, in quale ricordo si fosse persa.
«Il primo giorno che Sarah ha trascorso qui, l’hanno lasciata su una sedia rivolta verso il muro.» Amanda stava parlando al suo riflesso nel vetro. «So che è stupido, ma mi sono infuriata quasi quanto il giorno in cui ho saputo quello che le era successo.»
«Non è stupido» risposi.
«Mi piace pensare che là dentro ci sia ancora qualcosa della Sarah che conoscevo e amavo. So che non è così, però…» S’interruppe ma impiegò un istante a riprendere il filo dei suoi pensieri. «A Sarah sarebbe piaciuta questa vista. Ha sempre amato la vita all’aperto. Da bambina era felice quando stava fuori. Le piaceva cavalcare. Quando la guardavo volare in groppa a un cavallo, fare tutti quei salti, mi preoccupavo da morire. Sarah era una temeraria. Però non l’avrei mai fermata perché avrebbe significato soffocare un lato della sua personalità.»
Amanda allungò una mano e la posò su quella della figlia. Quel gesto la scosse dai ricordi e la riportò in quella stanza. Spostò allora il suo sguardo triste su di me. «Allora che posso fare per lei, detective?»
«Sono venuto a chiederle il permesso di uccidere sua figlia.»