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Templeton viveva in una casetta vittoriana di mattoni rossi in fondo a una fila di villette identiche. Erano vecchie, ma ben tenute, in un bel quartiere: benestante, borghese, pulito. La strada era stretta a causa delle macchine parcheggiate su entrambi i lati.
Le luci di casa erano accese, sia al piano di sopra sia di sotto. Brutto segno. Templeton era troppo attenta per uscire senza spegnerle. Hatcher mi aveva dato il telefono di casa, ma aveva risposto la segreteria telefonica. Adesso sul cellulare scattava direttamente la casella vocale, il che significava che era spento o che la batteria era scarica. Hatcher parcheggiò a fatica tra un SUV e una Mini e quindi scendemmo.
«Ho un brutto presentimento, Winter.» Hatcher stava osser–vando le finestre illuminate, pensando sicuramente quello che pensavo io. I fatti parlavano da sé. Non c’era possibilità di equivoco. Scosse la testa e stropicciò gli occhi stanchi. «Devo chiedere rinforzi.»
«Vediamo prima di che si tratta con precisione.»
«Le luci sono accese, Templeton non risponde al telefono, di cosa credi si tratti?»
«Nel peggiore dei casi è morta. Nel migliore è stata rapita. In nessuno dei due, dieci minuti faranno la differenza.»
«Cristo, Winter, sei cinico.»
«Dieci minuti.»
Annuì. «D’accordo, dieci minuti, poi chiamo.»
Controllammo innanzitutto la parte anteriore della casa. La porta era chiusa a chiave e nel bovindo non c’erano vetri rotti. Le tende erano chiuse, perciò non potevamo vedere dentro. Nessuno si era introdotto all’interno da quella parte. Non che mi aspettassi qualcosa di diverso: la strada era troppo vicina. Passava molta gente, a piedi o in macchina, rendendo l’impresa troppo rischiosa.
Ci spostammo sul retro. Le luci della cucina erano accese, le tende sollevate, per cui il bagliore illuminava il minuscolo cortile. Misurava sei metri per sei ed era rivestito di calcestruzzo grezzo. C’erano un po’ di muschio e di erbacce tra le fessure, ma erano le uniche tracce di verde in quella distesa di grigio. C’erano alcuni vasi vuoti per piante, una mountain-bike legata con un lucchetto e un recinto alto a tutela della privacy.
La finestra rotta mi confermò quanto avevo immaginato.
Per ridurre al minimo il rumore e le schegge, il criminale aveva applicato dei pezzi di nastro sul piccolo pannello in alto prima di spaccarlo. Poi aveva infilato la mano all’interno, tolto il fermo e scavalcato il davanzale.
La porta posteriore era chiusa.
Ricordai che Templeton aveva fatto una battuta a proposito delle porte blindate dei caveau e che le avevo risposto che non servivano a niente, perché se qualcuno avesse voluto entrare ci sarebbe riuscito. Per una volta detestai il fatto di aver ragione.
«Devo chiedere rinforzi» disse Hatcher. Afferrò il cellulare e cominciò a scorrere la rubrica.
«Dieci minuti» ribadii.
«Quello era cinque minuti fa.»
«Il cronometro parte ora.»
«Okay, okay, ma se entriamo, dobbiamo mettere questi.»
Dalla tasca estrasse, come per magia, due paia di guanti di lattice e due di soprascarpe. Li indossai e mi issai sul davanzale. Allungai con cautela il braccio all’interno, tolsi il fermo ed entrai. I piatti puliti erano disposti in fila sullo scolapiatti e nel lavandino alcune schegge di vetro brillavano come tanti piccoli diamanti. La chiave era inserita nella porta, la girai e feci entrare Hatcher.
«Nove minuti» fece.
«Nove minuti» confermai. «Ma devo chiederti di stare zitto in modo che possa fare quello che devo.»
È buio quando arrivo perché amo lavorare al buio, ma è ancora presto perché devo trovare parcheggio prima dell’ora di punta. Sono solo perché non so per quanto tempo resterò qui. Lasciare la mia compagna in macchina ad aspettarmi darebbe troppo nell’occhio. Qualcuno potrebbe notarla e ricordarsene.
Le luci sono spente, il che significa che Sophie Templeton non è in casa. Vado dritto verso il cortile posteriore, camminando spedito ma non troppo. Se vai di fretta, ti notano. Se ti comporti come fossi del luogo, nessuno fa domande. Il recinto alto offre una certa privacy, nasconde le finestre del piano terra delle case vicine ma non quelle del piano superiore.
Niente luci di sopra. Via libera.
Metto il nastro alla finestra, la rompo, entro.
Per un minuto resto lì in piedi, familiarizzo con odori e rumori. La casa sembra in affitto più che di proprietà. È semiammobiliata e si nota chiaramente la differenza tra il gusto di Templeton e quanto ha lasciato il proprietario. La perlustro stanza per stanza cercando il luogo migliore per tendere l’imboscata. La cucina è esclusa perché è troppo stretta e ci sono troppi oggetti che possono essere usati come armi: coltelli, padelle, cose pesanti. Il bersaglio è una poliziotta, una donna di un’altra categoria rispetto alle altre. Non ha senso correre rischi inutili.
La stanza anteriore potrebbe andare bene, ma devo attendere altrove perché la porta dà direttamente sulla strada e non ci sono nascondigli. Il bagno di sopra è escluso perché troppo piccolo e anche il ripostiglio, perché pieno di roba. Entro nella camera da letto.
Non ci sono cadaveri sul letto king-size e nemmeno per terra. Non c’è odore di morte.
L’ampio guardaroba è pieno di vestiti e la cassettiera colma fino all’orlo. Sotto il letto ci sono polvere e un po’ di sporcizia. Sul piumino c’è un avvallamento e i cuscini sono stati usati.
Mi siedo e aspetto che Sophie Templeton rientri.
Socchiudo la finestra e il rumore della strada penetra in casa. Mi avvicino di nuovo al letto, mi siedo e attendo. Drizzo le orecchie ogni volta che sento un’auto parcheggiare, o un pedone camminare sul marciapiede.
Sento dei passi sul vialetto che conduce all’ingresso.
Il rumore di una chiave nella toppa.
Ci sono due possibilità. Entra e sale sopra per cambiarsi o va in cucina a dare da mangiare al gatto. Mi sposto rapido sul pianerottolo per essere pronto in entrambi i casi.
Così vicino, eppure così lontano. Fissavo l’avvallamento nel piumone rendendomi conto che, se fossimo arrivati due ore prima, in questo momento avrei davanti il nostro uomo. Settant’anni di vita equivalgono a 613.620 ore, quindi due ore non sono niente. Nell’aria aleggiava ancora un vago odore di dopobarba. Tanto vicini eravamo arrivati. Hatcher era accanto alla mia spalla con lo sguardo fisso sul piumone e dal modo in cui lo guardava, ero sicuro che stesse pensando la stessa cosa.
Vedevo il nostro uomo seduto sul letto: corporatura media, un metro e ottanta, capelli castani. Mancava solo il volto. Il gatto di Templeton entrò silenzioso in camera e saltò sul letto. Ci fissò come se fossimo forme inferiori di vita e miagolò, chiedendo cibo. Dalla targhetta sul collare vidi che si chiamava Mr Bojangles. Lo accarezzai sotto il mento e lui fece soddisfatto le fusa.
«La cattura è la parte più rischiosa di un rapimento» dissi. «Ci sono troppe cose che possono andare storte. Il nostro uomo ha immobilizzato in qualche modo Templeton e l’ha portata dalla casa alla macchina senza che nessuno se ne accorgesse. Come?»
«Devo chiamare, Winter.»
«No, quello che devi fare è rispondere alla mia domanda. Hai detto che Fielding è un incapace. Questo significa che spetta a noi ritrovare Templeton, ovvero fare il nostro lavoro. Quindi, concentrati. Come ha fatto?»
«L’ha drogata.»
Scossi la testa. «E poi? Esce dalla porta principale e raggiunge l’auto senza che nessuno se ne accorga? Escluso, Hatcher. Non in una zona come questa.»
«Va bene, forse aveva una pistola o un coltello.»
«Una pistola è una finta minaccia. Se avesse sparato, nel giro di pochi minuti questa casa sarebbe stata piena di poliziotti. Lui lo sa, e anche Templeton. Il problema con i coltelli è che sono efficaci solo a distanza ravvicinata. Templeton è addestrata a difendersi e avrebbe capito subito chi fosse l’intruso, pertanto avrebbe reagito. Vedi segni di lotta?»
Lui scosse la testa. «Allora come ha fatto?»
Accarezzai di nuovo Mr Bojangles sotto il mento e lui fece un altro miagolio. «Buona domanda.»